Appalti, ecco perché fu ucciso Borsellino

Appalti, nuova pista per Borsellino. Il magistrato voleva riaprire l’ indagine insabbiata, incontro segreto con i vertici del Ros

PALERMO – Perche’ , il 19 luglio 1992, fu ucciso Paolo Borsellino? La sua morte si coniuga male con l’ abituale, perche’ secolare, pragmatismo di Cosa nostra. Giovanni Falcone era morto da 48 ore. Erano le 8 del mattino del 26 maggio e le stanze della Procura di Palermo erano deserte, ghiacce, gonfie di un silenzio oscuro come l’ angoscia. Paolo Borsellino ragionava della “convenienza” per la mafia di uccidere il suo amico a Palermo. Diceva: “Per killer e mandanti di mafia il problema piu’ importante e’ assicurarsi l’ impunita’ , che e’ una costante per i mafiosi. La certezza dell’ impunita’ e’ condizione essenziale per Cosa nostra. Nessun mafioso e’ disposto a rischiare anche un sol giorno di galera per un omicidio”. Ecco perche’ , dopo sette anni, e nonostante i processi e le condanne, le ragioni della strage di via D’ Amelio stanno in piedi come un sacco vuoto. Anche il piu’ gonzo (o sanguinario) di quegli “uomini del disonore” avrebbe potuto prevedere che schiacciare con il tritolo la vita di Borsellino, a 56 giorni dall’ esplosione di Capaci, avrebbe rovesciato sulle loro teste le residue forze di uno Stato debilitato dagli arresti e dalle incriminazioni di Mani pulite. Bernardo Provenzano e Salvatore Riina devono aver messo in conto la spietata repressione dello Stato. Eppure, decisero quella mossa. Perche’ ? Apparentemente Borsellino non era, in quel momento, una minaccia come poteva esserlo Falcone, Zar della lotta antimafia. Era in un angolo, messo nell’ angolo dal procuratore Pietro Giammanco. Ha raccontato Lucia Borsellino a Umberto Lucentini (Il valore di una vita): “Pur di continuare a lavorare, papa’ era disposto ad accettare i limiti che gli pone sempre piu’ spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che, per motivi gerarchici, e’ costretto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza pero’ ricevere lo stesso flusso di informazioni”. Borsellino, nell’ estate del 1992, e’ un uomo in ginocchio. Disperato per la morte dell’ amico, costretto a non mettere becco sulle indagini di Palermo, confinato alle inchieste di Trapani e Agrigento, imbrigliato sulla sua seggiola di procuratore aggiunto dal diffuso potere di Giammanco (che addirittura gli tace una notizia di “un pesante segnale di pericolo per la sua incolumita”). Perche’ ucciderlo, allora? I magistrati di Caltanissetta lo hanno chiesto ossessivamente ai disertori di Cosa nostra. Salvatore Cancemi era a Capaci e faceva “la staffetta” a via D’ Amelio. Ha risposto di “non saperlo”. Giovanni Brusca, che a Capaci addirittura schiaccio’ il pulsante dell’ attentatuni, ha detto di essere rimasto “sorpreso” dalla morte del giudice. Si tocca con mano che le ragioni della morte di Borsellino sono piu’ segrete, piu’ intricate, meno trasparenti. Anche per alcuni boss della Commissione. Anche dentro Cosa nostra. “Perche’ fu ucciso Paolo Borsellino” e’ comunque una domanda che puo’ avere una risposta. Le possibili tracce di una risposta, gli indicativi segni per una spiegazione sono stati (e sono) sotto gli occhi di tutti. Pochi se ne vogliono curare (o sono a disagio a curarsene). Pochissimi ne vogliono parlare (o scriverne). E tuttavia quelle impronte (non superficiali) ognuno, se vuole, puo’ maneggiarle soppesandone il valore e la densita’ . Ha raccontato il pubblico ministero Antonio Ingroia, quasi un figlio adottivo per Borsellino: “Paolo in quei giorni riprese in mano il famoso rapporto dei carabinieri del Ros su mafia e appalti”, un’ inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e finita nelle mani di Giammanco. Borsellino legge e rilegge “i diari di Falcone”, pubblicati dal Sole 24 Ore, che raccontano il conflitto in Procura che obbligo’ il giudice a lasciare Palermo. Dice Ingroia (Il valore di una vita): “Paolo vuole approfondire quelle vicende, sente che si tratta di episodi che, letti in un modo isolato, possono sembrare inconsistenti, ma che per il solo fatto di essere stati scritti da un uomo come Falcone nascondono qualcosa di importante… In quei giorni Paolo contatta le persone citate negli appunti di Giovanni, i colleghi della Procura di cui si fida e che sono in grado di offrirgli nuovi particolari su quelle vicende”. Paolo Borsellino si convince che “la causale piu’ probabile della morte di Giovanni” e’ nell’ intreccio degli appalti. Ne parla con Leonardo Guarnotta, l’ amico del vecchio pool dell’ ufficio istruzione (oggi presidente del tribunale che giudica Dell’ Utri). E fa di piu’ . In un caldo pomeriggio di meta’ giugno chiede al generale del Ros Mario Mori “un incontro riservato”. Lontano dalla procura. In una stanza appartata della caserma dei carabinieri di piazza Verdi a Palermo. L’ annotazione di quell’ appuntamento, dicono, e’ ben chiara nell’ agenda del magistrato. Borsellino, da uomo franco, mette subito le carte in tavola. Vuole la disponibilita’ di quello speciale nucleo d’ investigazione per un’ indagine che deve essere segreta. Chiede che il capitano Giuseppe De Donno gli sia accanto. E, d’ altronde, e’ l’ ufficiale che ha lavorato al Rapporto Mafia – Appalti, il piu’ indicato dunque per riprenderne le fila (vedi qui accanto la sua deposizione al processo, 4 dicembre 1998). E’ pero’ un lavoro che deve essere fatto a due condizioni. La procura di Giammanco non deve sapere nulla; il capitano deve riferire soltanto a lui. Leggere i verbali dell’ interrogatorio dell’ ufficiale e del generale Mori accappona la pelle. Borsellino e’ un uomo assediato, convinto che li’ in quella Procura qualcuno ha tradito Falcone. Lo disse, senza tanti giri di parole, anche in quel mattino del 26 maggio: “Soltanto in questo ufficio sapevano che c’ erano ormai i numeri per fare, di Giovanni, il procuratore nazionale. Soltanto in quest’ ufficio sapevano che sabato 23 maggio, per due anni, sarebbe stato l’ ultimo sabato a Palermo per Giovanni”. Nonostante il tempo scivolato via, angoscia il pensiero di un uomo consapevole che, se vuole dare un nome agli assassini e un perche’ alla morte dell’ amico, si deve guardare da alcuni ambienti della procura. E, di piu’ , andare al limite della legge sollecitando indagini riservate e private. Si possono soltanto immaginare (forse) la disperazione, l’ affanno, la solitudine che ha spinto un servitore dello Stato come Borsellino a deformare le regole, rispettoso come ne era fino al tormento. Non si possono, invece, immaginare l’ intreccio criminale che ha intuito e le complicita’ che, quell’ intreccio, proteggevano. Un fatto e’ pero’ certo. Per sbrogliare quell’ intreccio e illuminarne le collusioni bisogna guardare agli appalti, a quel tavolo trilaterale dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi. Ieri a Palermo e’ stato arrestato Giuseppe Pino Lipari. Era uno di quegli imprenditori su cui i carabinieri avevano puntato gli occhi nell’ inchiesta Mafia – Appalti. Si legge nell’ ordinanza del gip di Caltanissetta che ha riaperto l’ indagine sulla corruzione in Procura: “Assumere a sommarie informazioni Mario D’ Acquisto, gia’ segretario dell’ onorevole Franz Gorgone, il quale avrebbe informato dell’ esistenza della indagine Mafia & Appalti Pino Lipari”. Il primo rapporto Mafia & Appalti e’ del 20 febbraio 1991. Ieri era il 9 febbraio 1999. Sono gli otto anni di vantaggio che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non volevano concedere a Cosa nostra. Nonostante lo straordinario impegno di Giancarlo Caselli, sono stati concessi. Falcone e Borsellino sono morti. Giuseppe D’ Avanzo (2 – continua)

Giuseppe D’Avanzo per il Corriere della Sera del 10 febbraio 1999

C’è del marcio in Procura ?

PALERMO – Dentro il pozzo nero di questa storia ci potrebbero essere le tracce per dare risposte a qualche capitolo irrisolto delle cronache siciliane. Sono tracce che potrebbero spiegare perche’ il disvelamento della “corruzione sistemica” dell’ amministrazione e dell’ economia italiane, che e’ stato a portata di mano in Sicilia, e’ cominciato soltanto l’ anno dopo a Milano con Mani pulite. Si potrebbe finalmente capire perche’ con tanta, troppa precipitazione Cosa Nostra ha ucciso Paolo Borsellino. Forse, per venire ai giorni nostri, si potrebbe anche comprendere perche’ da un giorno all’ altro al generale Mario Mori, comandante del Ros (il nucleo d’ eccellenza investigativa dei carabinieri), e’ stato dato il benservito. Dopo le accuse del Ros, i magistrati di Caltanissetta dovranno chiarire i molti punti oscuri dell’ istruttoria mafia – appalti “Un pm proteggeva Provenzano?” Caso Siino, il gip ordina una nuova inchiesta sulla Procura di Palermo A dirla chiara, questa storia dovrebbe cominciare con un interrogativo che fa arrossire: nella Procura di Palermo c’ e’ stato (e magari c’ e’ ancora) un magistrato (piu’ d’ un magistrato) che ha maneggiato al disinnesco dell’ inchiesta Mafia & Appalti? Era, quella su Mafia & Appalti, un’ inchiesta con i fiocchi condotta (anno 1991) dai carabinieri del Ros del generale Mario Mori. Secondo l’ Arma, esisteva in Sicilia un tavolo trilaterale (politici – mafiosi – imprenditori) che governava l’ intero volume degli affari pubblici dell’ isola. Ricordano al Ros: “A nostro avviso, gli imprenditori e i politici nazionali, come i politici e gli imprenditori siciliani, non subivano la presenza della mafia. Al contrario, consapevolmente ne accettavano la presenza, convinti che quel terzo “socio” avrebbe difeso il sistema e ne avrebbe aumentato i profitti”. Si sa come fini’ . I carabinieri consegnano ai procuratori di Palermo la prima “informativa” nel febbraio 1991. In tempo reale, il dossier e’ nelle mani di Cosa Nostra. Chi viola il segreto? E perche’ ? E’ colluso? Complice? O, minacciato, e’ un pavido? L’ inchiesta, comunque, si sgonfia presto. Volano soltanto gli stracci. Si salvano gli imprenditori di riferimento di Salvatore Riina (Nino e Salvatore Buscemi) come le grandi societa’ del Nord al lavoro in Sicilia (la Calcestruzzi di Gardini vicina ai socialisti e la Tor di Valle di Catti – De Gasperi, la Rizzani de Eccher care al potere democristiano, le cooperative rosse). E’ il primo paragrafo della storia. Il secondo ha i vapori venefici che a Palermo fanno da sfondo ai conflitti tra gli apparati dello Stato. Novembre 1997. Un capitano del Ros, Giuseppe De Donno, testimonia alla Procura di Caltanissetta che, a dar fede alle confidenze di Angelo Siino (un mafiosaccio ritenuto “il ministro dei Lavori pubblici del governo corleonese”), quel dossier fini’ nella mani di Cosa Nostra. Dice De Donno: “Siino mi spiego’ che, nei primi mesi del 1991, entro’ in possesso della nostra informativa sugli appalti. Mi disse di averla ricevuta da alcuni magistrati della Procura. E mi fece i nomi dell’ allora procuratore Pietro Giammanco e di due sostituti, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone”. Apriti cielo! Giancarlo Caselli denuncia una manovra “gravemente sospetta per i tempi, i modi e gli obiettivi”. Il generale Mario Mori difende il suo capitano. Si approssima una partita che non prevede il pareggio perche’ delle due, l’ una: o il capitano, sostenuto dall’ Arma, mente o, se non e’ un calunniatore, c’ e’ del marcio in Procura. Il dissidio sembra senza via d’ uscita eppure per quei bizantinismi che solo in Italia trovano cittadinanza, la terza via si riesce a trovare. I pubblici ministeri di Caltanissetta chiedono l’ archiviazione per l’ uno e per gli altri, per il capitano De Donno (accusato di calunnia) e per Giammanco, Lo Forte, Pignatone (accusati di corruzione). Il generale Mori e il procuratore Caselli possono allora con letizia farsi vedere insieme a cena. E’ una pace di respiro corto perche’ , si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Cosi’ la storia si arricchisce di un terzo e quarto paragrafo. Terzo paragrafo. Guido Lo Forte non e’ soddisfatto dalle motivazioni dell’ archiviazione. Vi intravvede qualche interrogativo di troppo e, con una memoria, chiede che l’ inchiesta possa continuare per liberarlo del tutto dal sospetto di collusione. I procuratori di Caltanissetta, allora, prendono cappello e, a loro volta, sottoscrivono una memoria. Scrivono che De Donno mai fece pressioni su Siino. “Agli atti vi e’ la prova che Siino non interpreto’ mai le asserite pressioni del capitano come un tentativo di fargli dire cose false”. Liberano l’ ufficiale da ogni volonta’ calunniatrice. “…vi erano per converso numerosi elementi che potevano ingenerare nell’ animo del capitano il convincimento, se non proprio di una corruzione, quantomeno di una collusione di Lo Forte con esponenti politici”. Affermano come, a fronte del rapporto dell’ Arma, la Procura di Palermo senza “alcuna curiosita’ investigativa sui rapporti mafia – politica – imprenditoria” subito abbia minimizzato l’ intreccio. La conclusione e’ all’ acido muriatico: “Si evince che quando i carabinieri si stavano preparando a riferire sui politici e sui pubblici amministratori, la Procura chiede l’ archiviazione per gli imprenditori”. Il quarto paragrafo lo scrive da cima a fondo il gip Gilda Loforti. Che ci pensa su e conclude che l’ inchiesta non si puo’ chiudere con un “vogliamoci bene”. Troppi i testimoni chiave non interrogati. Troppi i nastri non trascritti correttamente. Insomma, scrive Gilda Loforti, “l’ esame degli atti evidenzia l’ incompletezza delle indagini e la necessita’ di approfondimenti investigativi”. Il giudice con pedanteria elenca. Quando e come si penti’ Angelo Siino? Perche’ non e’ stato ascoltato il generale Nunzella (capo di Stato Maggiore dell’ Arma) che era a conoscenza dei rapporti tra De Donno e Siino? Perche’ mi avete dato soltanto le copie delle conversazioni intercettate e non gli originali? E perche’ in larga parte di quelle copie c’ e’ la formula “incomprensibile”? Perche’ alcune frasi presenti nelle trascrizioni dell’ Arma non fanno capolino nelle trascrizioni della Procura? Chi e’ , ad esempio, “quel procuratore nelle mani di Provenzano” che assicurava al boss una quieta latitanza a Bagheria? E’ vero che il sostituto Roberto Scarpinato ammise con il capitano di aver archiviato l’ inchiesta “per le pressioni subite da parte di Lo Forte”? Tutto da rifare, dunque. L’ inchiesta come le polemiche. Che, c’ e’ da giurarci, non mancheranno.  (1 – continua)

Giuseppe D’Avanzo per Il Corriere della Sera del 9 febbraio 1999