E raccontiamola allora questa incredibile storia del covo di Salvatore Rina che non venne mai perquisito, una storia tornata prepotentemente alla ribalta in questi giorni. Gabriele Chelazzi – lo abbiamo scritto sull’Unità del 23 maggio – non credeva alla versione ufficiale della cattura del boss dei boss avvenuta il 15 gennaio 1993, e sospettava che proprio quello fosse stato lo snodo decisivo della scivolosissima trattativa istituzioni-mafia iniziata nella primavera del 1992. Cosa Nostra aveva svenduto Riina allo Stato in cambio di una nuova stagione di impunità? Era questo l’interrogativo che inquietava Chelazzi, convinto anche che la trattativa continuasse sino ai nostri giorni.
Sulla mancata perquisizione del covo c’è un’inchiesta aperta della Procura di Palermo. Nei prossimi giorni si concluderà con il rinvio al Gip Vivetta Massa, che già una volta aveva respinto la richiesta di archiviazione contro ignoti. Ma torniamo indietro nel tempo.
È il 15 gennaio 1993. Data storica per l’antimafia: è il giorno della cattura di Riina, ma è anche quello dell’insediamento alla guida della Procura di Palermo, di Gian Carlo Caselli.
In quei giorni, la fiducia di Caselli nei confronti degli ufficiali del Ros, il reparto scelto dei carabinieri è totale. Mario Mori, vicecomandante del Ros, e Caselli, si conoscono dai tempi dell’antiterrorismo e la loro stima è reciproca. Caselli interpreta la cattura di Riina come l’inizio di una collaborazione che si annuncia brillante sotto tutti i profili. In pochi minuti il dispaccio sulla cattura del boss dei boss fa il giro del mondo.
Poche ore dopo l’annuncio che i militari del Ros, guidati dal maggiore Sergio De Caprio (“Ultimo”), hanno proceduto all’arresto sulla rotonda della circonvallazione di Palermo di Totò Riina, in compagnia del suo autista Salvatore Biondino, insorgono le prime grosse complicazioni.
Quella mattina, la caserma Bonsignore di Palermo, dove nel frattempo è stato tradotto Riina ormai prigioniero, diventa il luogo di ritrovo di decine e decine di carabinieri e magistrati. È lì, in quella caserma, che ha luogo la conferenza stampa per illustrare il grande evento.
C’è Caselli, c’è Mori, e c’è anche il colonnello Giorgio Cancellieri, comandante dei carabinieri della Regione Sicilia. Sarà Cancellieri, a nome dell’Arma, a offrire alla gran folla di giornalisti, le prime sommarie ricostruzioni dell’accaduto, a mostrare la foto del boss la cui faccia sino a quel momento era sconosciuta.
Intanto, nel cortile, un’autocolonna di mezzi blindati ha già i motori accesi. Cancellieri ai suoi sottoposti (colonnelli, maggiori e capitani) ha dato ordine – secondo prassi – di procedere all’immediata perquisizione del covo di via Bernini, quello in cui Riina si trovava sino a pochi minuti prima del suo arresto.
Viene designato il magistrato che coordinerà le operazioni: Luigi Patronaggio, sostituto di Caselli, che era di turno il 15 gennaio. L’operazione prevista non era semplice, visto che il covo di Riina si trovava all’interno di un residence, e non essendo stato ancora individuato, si imponeva la messa sotto osservazione di un’intera area. Ma quell’autocolonna non partì mai.
Sopraggiungono infatti gli alti ufficiali del Ros e il maggiore De Caprio. Rendendosi conto che i colleghi della “territoriale” stanno per mettersi in movimento per la perquisizione, raggiungono la sala mensa del circolo ufficiali dove, a conferenza stampa finita, è in corso un pranzo fra carabinieri, compreso Mori, e magistrati, incluso Caselli.
De Caprio – come successivamente scriverà il procuratore reggente Vittorio Aliquò – “manifesta tutto il suo disappunto” per quella decisione. Mori, nella conversazione che si accende a tavola, interviene dicendo che De Caprio ha ragione e che anche lui propende per non perquisire nulla. Da questo momento in avanti, iniziano le divergenze di interpretazioni su quanto effettivamente detto durante il pranzo dai protagonisti.
Secondo il Ros, per De Caprio la perquisizione era inutile in quanto Riina non si nascondeva in un “covo” operativo, bensì in una casa insieme alla famiglia. Era quindi da escludere che potesse tenere con sé materiale interessante per gli investigatori e compromettente per Cosa Nostra. Infine, De Caprio – sempre secondo le testimonianze degli ufficiali del Ros – sollecitò altre indagini per individuare il “vero covo” che non poteva essere quello di Via Bernini.
Opposta la testimonianza degli ufficiali che si stavano recando in via Bernini. Il capitano Domenico Balsamo e il capitano Marco Minicucci, comandati dal colonnello Domenico Cagnazzo, hanno riferito di avere capito tutti la stessa cosa. Si fecero convincere a non andare in quanto Mori e De Caprio avevano dato assicurazioni che l’attività di osservazione sarebbe comunque proseguita. Non si escludeva infatti che altri mafiosi, convinti che Riina fosse stato arrestato sulla circonvallazione e con gli investigatori all’oscuro dell’esistenza del covo, potessero nelle ore e nei giorni successivi tornare a frequentare quel luogo. E che proprio De Caprio avesse affermato di avere arrestato Riina “fuori zona” per non bruciare il residence di via Bernini.
Versioni difficilmente conciliabili. Ognuno se ne andò via convinto che il “dibattito” si fosse risolto con un punto di accordo.
In realtà, accadde un’altra cosa. Sin dalla mattinata, il Ros aveva definitivamente ritirato tutti i suoi uomini da via Bernini. E alle 16 del pomeriggio del 15 gennaio, mentre quel pranzo ormai era praticamente finito, in via Bernini non c’è più alcuna presenza dello Stato, né fisica (i militari), né virtuale (le telecamere). Persino il piantone che si trovava nel furgone dove era nascosto il pentito Balduccio Di Maggio, che aveva consentito il riconoscimento di Totò Riina quando era uscito a bordo della macchina guidata da Salvatore Biondino, riceve l’ordine di lasciare il campo. Ma tutto questo si sarebbe saputo solo molti giorni dopo.
Ora la storia si sposta negli uffici degli alti comandi della lotta alla mafia. Caselli, forse intuendo qualcosa, chiede al collega Aliquò (reggente dell’ufficio sino al giorno della sua nomina a capo della Procura) di scrivere una ricostruzione degli eventi. Questa relazione è agli atti dell’inchiesta della Procura di Palermo che nei prossimi giorni giungerà a scadenza.
Per imbattersi nel primo vero sospetto che qualcosa sta andando storto, bisogna arrivare al 27 gennaio 1993, dodici giorni dopo la cattura di Riina. Cosa accade?
Accade che il colonnello Cagnazzo apprende dalla compagnia dei carabinieri di Corleone che la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, insieme ai figli è tornata a casa sua, dopo un ventennio di latitanza condivisa col marito e ha iniziato una sua seconda vita. Cagnazzo chiede alla Procura: se quelli del Ros controllano via Bernini, come mai non ci hanno segnalato il trasferimento dei familiari di Riina in direzione Corleone?
Fra l’altro qualche giorno prima, proprio Cagnazzo, convinto che i colleghi del Ros stessero comportandosi secondo programma, aveva simulato per i giornalisti un sopralluogo a Fondo Gelsomino, a Palermo, in campagna, per continuare ad accreditare urbi et orbi che loro, di via Bernini, non sapevano nulla. Quindi il suo disappunto è doppio. Esplode l’affaire.
Caselli chiede a Mori spiegazione. Mori prende tempo. Sarà solo il 2 febbraio che la “territoriale” otterrà dalla Procura l’autorizzazione a perquisire. Ma in quel covo ormai non c’è più niente.
I mafiosi, che hanno avuto quasi tre settimane a disposizione, hanno portato via mobili e quadri e gioielli e documenti (ma secondo il Ros quei documenti non sarebbero mai esistiti), scardinato dal muro persino una cassaforte, eliminato ogni traccia, usato l’aspirapolvere e infine ridipinto le pareti. Tutto questo lo avrebbe poi raccontato Giovanni Brusca riferendo che Ninetta Bagarella fu accompagnata in taxi alla Stazione centrale – sotto scorta di un commando di “uomini d’onore” – dove salì sul treno per tornarsene placidamente nella “sua” Corleone.
Il grande racconto di quei giorni è finito. Ma cosa è rimasto nelle carte di un’inchiesta che ancora oggi mette paura a molti?
Scegliamo fior da fiore: “dall’esame degli atti risulta che i carabinieri del Ros erano perfettamente a conoscenza (fin dalle prime ore del mattino del 15 gennaio) della esatta ubicazione del covo di Riina, mentre gli organi di stampa diffondevano comunicati relativi alla spasmodica ricerca del “covo” del latitante. In verità però esisteva anche un terzo livello di conoscenza, particolarmente riservato, in quanto noto soltanto a pochissimi ufficiali del Ros e ignoto persino ai magistrati della Procura: che malgrado tutte le assicurazioni…. quei presidi investigativi erano stati invece dimessi poco dopo l’arresto di Riina e non erano mai stati riattivati.”
E ancora: “a sapere che dopo la cattura del latitante nessuno aveva più controllato la casa dalla quale era uscito, erano soltanto pochi ufficiali, gli stessi che avevano suggerito di non perquisire la casa immediatamente dopo l’arresto…”. Tutto restò dunque segreto.
Si legge: “solo il 30 gennaio, e quindi ben quindici giorni dopo la cattura di Riina, i vertici del Ros resero noto a questo ufficio che le attività di osservazione … erano state dismesse poco ore dopo l’arresto del latitante”. Diamo adesso un’occhiata alla ricostruzione commissionata da Caselli ad Aliquò. Relazione questa definita dai magistrati “un fedele e dettagliato resoconto in progress”.
Scrive Aliquò: “durante un incontro del 15 gennaio, i vertici dell’ Arma dei carabinieri (presente l’allora Vicecomandante del ROS Mario Mori), assicuravano: “garanzia di controllo assoluto costante””.
Riunione del 20 gennaio (ancora Aliquò): “i vertici dell’ Arma confermavano che il “complesso” di via Bernini era “accuratamente sotto controllo””.
Riunione dei carabinieri del 26 gennaio: “il colonnello Domenico Cagnazzo affermava che in via Bernini non c’era più controllo da diversi giorni e che di ciò non era stato informato dal ROS, ma lo aveva dedotto dall’arresto di Antonietta Bagarella a Corleone(e Aliquò precisa: “alla riunione non erano presenti i vertici del ROS”)”.
Ultime battute: “nel corso di una riunione con i vertici del Ros del 27 gennaio, seppure la Procura sollecitasse una perquisizione in via Bernini, l’allora colonnello Mori sembra non avere urgenza e dice che l’osservazione del complesso… stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione”.
Infine, l’irruzione (ormai inutile) del 2 febbraio.
Ma perché – si chiedono oggi in molti – il personale doveva essere “stressato” visto che tutto era stato sbaraccato sin dal 15 gennaio? Non si esclude, a questo punto, che si renda necessario un confronto fra Aliquò e il generale Mori, attuale numero uno del Sisde. Il generale Mori è già stato interrogato.
Saverio Lodato per L’Unità del 25 maggio 2003