Quel covo di Riina abbandonato dal Ros

E raccontiamola allora questa incredibile storia del covo di Salvatore Rina che non venne mai perquisito, una storia tornata prepotentemente alla ribalta in questi giorni. Gabriele Chelazzi – lo abbiamo scritto sull’Unità del 23 maggio – non credeva alla versione ufficiale della cattura del boss dei boss avvenuta il 15 gennaio 1993, e sospettava che proprio quello fosse stato lo snodo decisivo della scivolosissima trattativa istituzioni-mafia iniziata nella primavera del 1992. Cosa Nostra aveva svenduto Riina allo Stato in cambio di una nuova stagione di impunità? Era questo l’interrogativo che inquietava Chelazzi, convinto anche che la trattativa continuasse sino ai nostri giorni.
Sulla mancata perquisizione del covo c’è un’inchiesta aperta della Procura di Palermo. Nei prossimi giorni si concluderà con il rinvio al Gip Vivetta Massa, che già una volta aveva respinto la richiesta di archiviazione contro ignoti. Ma torniamo indietro nel tempo.
È il 15 gennaio 1993. Data storica per l’antimafia: è il giorno della cattura di Riina, ma è anche quello dell’insediamento alla guida della Procura di Palermo, di Gian Carlo Caselli.
In quei giorni, la fiducia di Caselli nei confronti degli ufficiali del Ros, il reparto scelto dei carabinieri è totale. Mario Mori, vicecomandante del Ros, e Caselli, si conoscono dai tempi dell’antiterrorismo e la loro stima è reciproca. Caselli interpreta la cattura di Riina come l’inizio di una collaborazione che si annuncia brillante sotto tutti i profili. In pochi minuti il dispaccio sulla cattura del boss dei boss fa il giro del mondo.
Poche ore dopo l’annuncio che i militari del Ros, guidati dal maggiore Sergio De Caprio (“Ultimo”), hanno proceduto all’arresto sulla rotonda della circonvallazione di Palermo di Totò Riina, in compagnia del suo autista Salvatore Biondino, insorgono le prime grosse complicazioni.
Quella mattina, la caserma Bonsignore di Palermo, dove nel frattempo è stato tradotto Riina ormai prigioniero, diventa il luogo di ritrovo di decine e decine di carabinieri e magistrati. È lì, in quella caserma, che ha luogo la conferenza stampa per illustrare il grande evento.
C’è Caselli, c’è Mori, e c’è anche il colonnello Giorgio Cancellieri, comandante dei carabinieri della Regione Sicilia. Sarà Cancellieri, a nome dell’Arma, a offrire alla gran folla di giornalisti, le prime sommarie ricostruzioni dell’accaduto, a mostrare la foto del boss la cui faccia sino a quel momento era sconosciuta.
Intanto, nel cortile, un’autocolonna di mezzi blindati ha già i motori accesi. Cancellieri ai suoi sottoposti (colonnelli, maggiori e capitani) ha dato ordine – secondo prassi – di procedere all’immediata perquisizione del covo di via Bernini, quello in cui Riina si trovava sino a pochi minuti prima del suo arresto.
Viene designato il magistrato che coordinerà le operazioni: Luigi Patronaggio, sostituto di Caselli, che era di turno il 15 gennaio. L’operazione prevista non era semplice, visto che il covo di Riina si trovava all’interno di un residence, e non essendo stato ancora individuato, si imponeva la messa sotto osservazione di un’intera area. Ma quell’autocolonna non partì mai.
Sopraggiungono infatti gli alti ufficiali del Ros e il maggiore De Caprio. Rendendosi conto che i colleghi della “territoriale” stanno per mettersi in movimento per la perquisizione, raggiungono la sala mensa del circolo ufficiali dove, a conferenza stampa finita, è in corso un pranzo fra carabinieri, compreso Mori, e magistrati, incluso Caselli.
De Caprio – come successivamente scriverà il procuratore reggente Vittorio Aliquò – “manifesta tutto il suo disappunto” per quella decisione. Mori, nella conversazione che si accende a tavola, interviene dicendo che De Caprio ha ragione e che anche lui propende per non perquisire nulla. Da questo momento in avanti, iniziano le divergenze di interpretazioni su quanto effettivamente detto durante il pranzo dai protagonisti.
Secondo il Ros, per De Caprio la perquisizione era inutile in quanto Riina non si nascondeva in un “covo” operativo, bensì in una casa insieme alla famiglia. Era quindi da escludere che potesse tenere con sé materiale interessante per gli investigatori e compromettente per Cosa Nostra. Infine, De Caprio – sempre secondo le testimonianze degli ufficiali del Ros – sollecitò altre indagini per individuare il “vero covo” che non poteva essere quello di Via Bernini.
Opposta la testimonianza degli ufficiali che si stavano recando in via Bernini. Il capitano Domenico Balsamo e il capitano Marco Minicucci, comandati dal colonnello Domenico Cagnazzo, hanno riferito di avere capito tutti la stessa cosa. Si fecero convincere a non andare in quanto Mori e De Caprio avevano dato assicurazioni che l’attività di osservazione sarebbe comunque proseguita. Non si escludeva infatti che altri mafiosi, convinti che Riina fosse stato arrestato sulla circonvallazione e con gli investigatori all’oscuro dell’esistenza del covo, potessero nelle ore e nei giorni successivi tornare a frequentare quel luogo. E che proprio De Caprio avesse affermato di avere arrestato Riina “fuori zona” per non bruciare il residence di via Bernini.
Versioni difficilmente conciliabili. Ognuno se ne andò via convinto che il “dibattito” si fosse risolto con un punto di accordo.
In realtà, accadde un’altra cosa. Sin dalla mattinata, il Ros aveva definitivamente ritirato tutti i suoi uomini da via Bernini. E alle 16 del pomeriggio del 15 gennaio, mentre quel pranzo ormai era praticamente finito, in via Bernini non c’è più alcuna presenza dello Stato, né fisica (i militari), né virtuale (le telecamere). Persino il piantone che si trovava nel furgone dove era nascosto il pentito Balduccio Di Maggio, che aveva consentito il riconoscimento di Totò Riina quando era uscito a bordo della macchina guidata da Salvatore Biondino, riceve l’ordine di lasciare il campo. Ma tutto questo si sarebbe saputo solo molti giorni dopo.
Ora la storia si sposta negli uffici degli alti comandi della lotta alla mafia. Caselli, forse intuendo qualcosa, chiede al collega Aliquò (reggente dell’ufficio sino al giorno della sua nomina a capo della Procura) di scrivere una ricostruzione degli eventi. Questa relazione è agli atti dell’inchiesta della Procura di Palermo che nei prossimi giorni giungerà a scadenza.
Per imbattersi nel primo vero sospetto che qualcosa sta andando storto, bisogna arrivare al 27 gennaio 1993, dodici giorni dopo la cattura di Riina. Cosa accade?
Accade che il colonnello Cagnazzo apprende dalla compagnia dei carabinieri di Corleone che la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, insieme ai figli è tornata a casa sua, dopo un ventennio di latitanza condivisa col marito e ha iniziato una sua seconda vita. Cagnazzo chiede alla Procura: se quelli del Ros controllano via Bernini, come mai non ci hanno segnalato il trasferimento dei familiari di Riina in direzione Corleone?
Fra l’altro qualche giorno prima, proprio Cagnazzo, convinto che i colleghi del Ros stessero comportandosi secondo programma, aveva simulato per i giornalisti un sopralluogo a Fondo Gelsomino, a Palermo, in campagna, per continuare ad accreditare urbi et orbi che loro, di via Bernini, non sapevano nulla. Quindi il suo disappunto è doppio. Esplode l’affaire.
Caselli chiede a Mori spiegazione. Mori prende tempo. Sarà solo il 2 febbraio che la “territoriale” otterrà dalla Procura l’autorizzazione a perquisire. Ma in quel covo ormai non c’è più niente.
I mafiosi, che hanno avuto quasi tre settimane a disposizione, hanno portato via mobili e quadri e gioielli e documenti (ma secondo il Ros quei documenti non sarebbero mai esistiti), scardinato dal muro persino una cassaforte, eliminato ogni traccia, usato l’aspirapolvere e infine ridipinto le pareti. Tutto questo lo avrebbe poi raccontato Giovanni Brusca riferendo che Ninetta Bagarella fu accompagnata in taxi alla Stazione centrale – sotto scorta di un commando di “uomini d’onore” – dove salì sul treno per tornarsene placidamente nella “sua” Corleone.
Il grande racconto di quei giorni è finito. Ma cosa è rimasto nelle carte di un’inchiesta che ancora oggi mette paura a molti?
Scegliamo fior da fiore: “dall’esame degli atti risulta che i carabinieri del Ros erano perfettamente a conoscenza (fin dalle prime ore del mattino del 15 gennaio) della esatta ubicazione del covo di Riina, mentre gli organi di stampa diffondevano comunicati relativi alla spasmodica ricerca del “covo” del latitante. In verità però esisteva anche un terzo livello di conoscenza, particolarmente riservato, in quanto noto soltanto a pochissimi ufficiali del Ros e ignoto persino ai magistrati della Procura: che malgrado tutte le assicurazioni…. quei presidi investigativi erano stati invece dimessi poco dopo l’arresto di Riina e non erano mai stati riattivati.”
E ancora: “a sapere che dopo la cattura del latitante nessuno aveva più controllato la casa dalla quale era uscito, erano soltanto pochi ufficiali, gli stessi che avevano suggerito di non perquisire la casa immediatamente dopo l’arresto…”. Tutto restò dunque segreto.
Si legge: “solo il 30 gennaio, e quindi ben quindici giorni dopo la cattura di Riina, i vertici del Ros resero noto a questo ufficio che le attività di osservazione … erano state dismesse poco ore dopo l’arresto del latitante”. Diamo adesso un’occhiata alla ricostruzione commissionata da Caselli ad Aliquò. Relazione questa definita dai magistrati “un fedele e dettagliato resoconto in progress”.
Scrive Aliquò: “durante un incontro del 15 gennaio, i vertici dell’ Arma dei carabinieri (presente l’allora Vicecomandante del ROS Mario Mori), assicuravano: “garanzia di controllo assoluto costante””.
Riunione del 20 gennaio (ancora Aliquò): “i vertici dell’ Arma confermavano che il “complesso” di via Bernini era “accuratamente sotto controllo””.
Riunione dei carabinieri del 26 gennaio: “il colonnello Domenico Cagnazzo affermava che in via Bernini non c’era più controllo da diversi giorni e che di ciò non era stato informato dal ROS, ma lo aveva dedotto dall’arresto di Antonietta Bagarella a Corleone(e Aliquò precisa: “alla riunione non erano presenti i vertici del ROS”)”.
Ultime battute: “nel corso di una riunione con i vertici del Ros del 27 gennaio, seppure la Procura sollecitasse una perquisizione in via Bernini, l’allora colonnello Mori sembra non avere urgenza e dice che l’osservazione del complesso… stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione”.
Infine, l’irruzione (ormai inutile) del 2 febbraio.
Ma perché – si chiedono oggi in molti – il personale doveva essere “stressato” visto che tutto era stato sbaraccato sin dal 15 gennaio? Non si esclude, a questo punto, che si renda necessario un confronto fra Aliquò e il generale Mori, attuale numero uno del Sisde. Il generale Mori è già stato interrogato.

Saverio Lodato per L’Unità del 25 maggio 2003

«Patto sottobanco per la cattura di Riina»

Rivelazione choc a Firenze: fu preso in strada per consentire che il covo fosse bonificato. Brusca: il pentito Di Maggio si accordò con i carabinieri

FIRENZE – Ha avuto diversi giorni per «ripensarci», ma alla fine Giovanni Brusca non si è tirato indietro e ha voluto mettere il proprio suggello su una vicenda ormai destinata ad entrare nei «buchi neri» della recente Storia d’Italia: la cattura di Totò Riina, coi suoi misteri, le incongruenze, le doppie e triple verità, le omissioni. Brusca, ancora dichiarante, ha voluto dare la sua interpretazione sul «giallo Riina». E lo ha fatto contro la volontà di tutti: da un lato i suoi avvocati che avrebbero preferito non si fosse infilato in un simile ginepraio; dall’altro i pubblici ministeri del processo fiorentino che vedono anticipare in aula temi ancora in evoluzione e destinati ad un prossimo dibattimento contro i «mandanti occulti» delle stragi. Tutti, soprattutto i carabinieri chiamati pesantemente in causa, a malincuore hanno dovuto ascoltare il «Brusca pensiero» sulla cattura di Riina. Argomento interessantissimo, anche se tutt’altro che chiarito dopo l’intervento del dichiarante, che va a legarsi al tema più generale riguardante i rapporti tra gli apparati dello Stato e Cosa Nostra, allo spinoso interrogativo sulla presunta «trattativa» per far cessare l’offensiva stragista della mafia.

Dunque, Brusca è convinto che Balduccio Di Maggio non volesse pentirsi ma mirasse soltanto ai soldi, alla taglia che lo Stato aveva posto sulla testa del latitante numero uno. Ma è convinto anche dell’esistenza di un «patto sottobanco» coi carabinieri perché il boss fosse catturato per strada, quasi casualmente, e lontano dalla propria abitazione. Tutto ciò per permettere alla moglie del «capo», Antonietta Bagarella, e ai quattro figli di lasciare il «covo» tranquillamente. E per permettere a due «squadre» di «bravi ragazzi» di bonificare il luogo di latitanza della famiglia reale di Cosa Nostra.

«Di Maggio – osserva Brusca – poteva far arrestare Riina a casa sua, mentre dormiva. Infatti conosceva il giardiniere che badava alle piante, sapeva anche che l’autista del boss era Salvatore Biondino e che la casa era intestata ai prestanome Sansone». Quando i carabinieri arrestano Riina senza arrivare al covo, «ipotizzammo subito che Di Maggio aveva fatto un patto sottobanco coi carabinieri».

Poi, Brusca ha ricostruito le fasi successive alla cattura di Riina. Dice che quella mattina del 15 gennaio ’93 Riina era atteso dalla «cupola» al gran completo per discutere ulteriormente «la strategia stragista». I mafiosi capiscono, dal ritardo di Riina, che qualcosa è andato storto. La notizia-bomba non tarda ad arrivare. La «cupola» si «scioglie», Bagarella si dà da fare, insieme con Giovanni Brusca, per «cercare di fare uscire senza problemi» la sorella e i nipoti. Se ne occupa Brusca che – non si capisce come e perché – ottiene garanzie dai Sansone circa la possibilità da far allontanare dal covo la Bagarella coi figli. «Sansone li accompagna in macchina, escono nel tardo pomeriggio e vanno alla stazione». La famiglia Riina si presenterà a Corleone in taxi.

Ciò che Brusca non ha spiegato, ma per il vero bisogna dire che è stato in questo bloccato, riguarda la «garanzia» ricevuta per bonificare la casa di via Bernini. E non ha potuto chiarire come sia stato possibile che la signora Bagarella sia uscita dal cancello senza essere ripresa dalle telecamere che i carabinieri dicono di aver posizionato davanti alla villa. Non ha potuto chiarire se conosce i motivi per cui i carabinieri quelle telecamere le spensero alle 16,30 di quella stessa giornata, senza peraltro aver compiuto la «canonica» perquisizione. Operazione che invece venne puntualmente eseguita in casa di Biondino, l’autista di Riina, come riferisce lo stesso Brusca. Questo il «buco nero» che l’aspirante collaboratore ha potuto soltanto sfiorare.

Ma cosa c’entra la cattura di Riina con le bombe e quindi col processo che si celebra? Qui il discorso si complica. E lo dimostra ciò che è accaduto ieri nell’aula del bunker di Santa Verdiana. Brusca ha offerto le proprie «deduzioni» miste a notizie certe. Ciò gli è stato consentito nell’inerzia generale, salvo poi dover fare una parziale «riproposizione» dei fatti, su precise domande del suo legale, Luigi Li Gotti.

Il dichiarante aveva detto una cosa certa: e cioè che tra Riina e lo Stato era in corso una «trattativa» per far cessare le stragi, tanto che il boss aveva ordinato il «fermo» per bloccare il progettato attentato contro la Torre di Pisa. Aveva detto pure che l’idea di colpire le opere d’arte – dopo il fallimento della «trattativa» – era stata di Paolo Bellini, personaggio ambiguo che i mafiosi consideravano «dei servizi segreti». Aveva aggiunto che Bellini era stato in contatto coi carabinieri del colonnello Mori. Insomma, per deduzione Brusca concludeva che anche la cattura di Riina era da inquadrare nel contesto generale di avvenimenti che, in quel periodo storico, avevano due protagonisti: lo Stato da una parte, Cosa Nostra dall’altro. E, rispondendo al pm Gabriele Chelazzi, non aveva esitato a concludere che – una volta letti i giornali, di recente – «mi sono reso conto che eravamo stati pilotati dai carabinieri». Mentre il comando generale stilava due righe per dire che tutto era privo di fondamento, la verità sta negli atti», nel pomeriggio Brusca ridimensionava il senso delle sue dichiarazioni, separando le notizie dalle deduzioni.

Restano i «buchi» della cattura del boss e i misteri della «trattativa». Che c’è stata, come ha confermato lo stesso colonnello Mori in una intervista a La Repubblica (5 novembre 1997), che oggi sembra quasi «preventiva» rispetto a quanto accaduto a Firenze, dal momento che Brusca certe cose le aveva dette ai magistrati di Palermo. Dice Brusca: «Leggendo il giornale ho capito che le mie deduzioni erano giuste. Compresi ì nomi che potevano aver portato avanti quel patteggiamento, e cioè il dott. Cina e Vito Ciancimino». L’udienza riprenderà venerdì.

Francesco La Licata per La Stampa del 20 gennaio 1998

Tutti i segreti dell’operazione Riina

” I 15 del Ros avevano gia’ trovato un covo. il pentito ha dato la conferma ” . Parla il colonnello Mario Mori

“Le chiedo una cortesia”. Il colonnello porge un foglietto. Dieci righe scritte a mano. “Vorrei che queste parole fossero trascritte integralmente”. Il testo dice: “La cattura di Riina e’ dovuta all’ attivita’ di una sezione del Ros col prezioso supporto dell’ Arma territoriale di Palermo. Questa precisazione e’ diretta a far giustizia di ogni altra diversa e contraria notizia originata da fonti interessate a sminuire il valore dell’ operazione”. Parole di fuoco. L’ antipasto di una storia ancora tutta da raccontare. Di fronte abbiamo gli uomini che hanno diretto e portato a termine con successo l’ operazione Riina. Parlano, nei limiti del possibile: “L’ operazione e’ ancora in corso”. Il fortino del Ros, il Reparto operativo speciale dei carabinieri, e’ una palazzina anonima cresciuta nella solita zona caserma. Siamo sotto Villa Ada, nella stanza del colonnello Mario Mori, vicecomandante dei Ros. Mori ha diretto le operazioni. Ha lavorato con Dalla Chiesa, e’ stato anche a Palermo. Con lui il maggiore “G”, un uomo coordinamento che si e’ spostato di continuo sull’ asse Roma Palermo e che ha vissuto a Palermo i giorni che hanno preceduto l’ arresto di Riina. E poi il capitano “Ultimo”, il capo della task force nella task force, il trentenne asso dei carabinieri che ha guidato l’ attacco al cuore dei corleonesi nelle strade controllate da Cosa Nostra. Allora, quando e’ nata l’ operazione Riina? “Il presupposto era questo: primo, catturare Riina; secondo, capire bene, durante la ricerca del boss, il rapporto tra i gruppi criminali legati ai corleonesi. Se non fossimo riusciti nel primo obiettivo comunque avremmo avuto una chiave di lettura sull’ area vicina alla mafia di di Corleone. Abbiamo cominciato a pensarci nell’ autunno ‘ 91. E siccome non abbiamo la palla di vetro e non siamo supermen ci siamo collegati con l’ Arma territoriale a Palermo per scremare tutte le informazioni che ci potevano essere utili. All’ inizio dell’ estate ‘ 92 abbiamo definito l’ insediamento corleonese a Palermo. A fine agosto abbiamo chiesto i necessari supporti. L’ operazione poteva durare anche un anno”. E in Sicilia e’ scesa la squadra di “Ultimo”. Con quali problemi? “Erano quindici giovanotti da acclimatare. Parliamo tutti la stessa lingua, siamo tutti carabinieri, siamo tutti del Ros, ma le impostazioni sono diverse. “Ultimo” e i suoi sono “stradaioli”, usano tecniche d’ attacco anche con mezzi sofisticati, la sezione locale del Ros e’ piu’ impegnata nell’ analisi. Gli uomini di Palermo sono conosciuti. Loro non dovevano essere bruciati, non dovevano apparire come gente dell’ Arma”. Nel timore di una talpa? “No. Ma se fossero usciti anche una volta dalla caserma avrebbero preso la patente di carabiniere. Dovevano stare fuori da tutto”. Quanto e’ durato l’ acclimatamento? “Un mese. I ragazzi hanno conosciuto le strade, hanno individuato gli obiettivi, hanno cominciato a muoversi in piena autonomia. Il contatto continuava con la nostra sezione anticrimine. Cosi’ e’ scattata l’ indagine diretta. E a fine novembre la macchina funzionava gia’ bene”. I quindici svolgevano finti lavori? “Lavori fittizi veri e propri non ci sono stati. Identita’ fittizie si’ : avevamo coperture credibili”. Quando si faceva il punto? E dove? “In pizzeria, in albergo, nei posti piu’ impensati. Ogni sera si stendeva un rapporto. E si stabiliva cosa fare il giorno dopo. Di volta in volta un obiettivo mirato: ti metto nel mirino, ti seguo, vedo chi frequenti, faccio le verifiche. Tutto questo e’ durato fino a una settimana prima dell’ arresto di Riina”. Mai un intoppo? “In questo e solo in questo abbiamo avuto fortuna. Una volta uno dei nostri ha rischiato di essere individuato. Non come carabiniere ma come un “farfallone”, un estraneo. Ce ne siamo accorti: loro hanno le radio, ma le abbiamo anche noi”. Che impressione avevate della rete corleonese? “Grande sicurezza e massima tranquillita’ . Era il loro territorio. Ma noi, i carabinieri, lo Stato, li abbiamo battuti”. E qui Mori aggiunge con forza: “Riina non si e’ arreso. Questa che le stiamo raccontando e’ la verita’ , la verita’ che emergera’ dai processi”. E allora facciamo chiarezza sul ruolo di Di Maggio, il mafioso bloccato a Novara. “A un certo punto i colleghi di Palermo che stanno lavorando sullo stesso contesto corleonese, ma fuori dalla citta’ , apprendono che un certo Di Maggio, un tempo molto vicino ai corleonesi, sarebbe ora in rotta con loro. I colleghi accertano, individuano il soggetto in Piemonte, mettono il suo telefono sotto controllo. Ma l’ intercettazione non e’ utile. Si chiede allora aiuto a Torino: ragazzi, ci fate una perquisizione? La fanno, e lo trovano con una pistola e un giubbotto antiproiettile addosso. Di Maggio aveva paura, ma non tanto dei carabinieri”. Una questione di interessi legati alle donne? “Ma che donne! Un bello scazzo con i suoi. Una questione criminale pura per la quale vale la pena di uccidere un uomo”. Torniamo all’ indagine: cosa si decide? “I colleghi di Palermo dicono: andiamoci a parlare. Vanno. Collabora. Viene avvisato il magistrato, che e’ quello del posto. Non ci credera’ nessuno . dice Mori . ma io mi trovavo a Torino per un’ altra faccenda e la sera avevo appuntamento a cena con Giancarlo Caselli. Alle diciotto mi avvertono: venga al comando, Di Maggio parla. Che si fa? Caselli non era ancora formalmente procuratore di Palermo e fa venire il giudice Aliquo’ . Di Maggio dice che per un certo periodo aveva portato in giro Riina. Lo carichiamo su un aereo e lo portiamo a Palermo. Ci indica due o tre posti”. E a quel punto tutto e’ piu’ facile. “Un momento. Il capitano “Ultimo” aveva sul gozzo il posto che secondo lui poteva portare a Riina. C’ era una strada piccola e uno stradone largo. Mancava pero’ la copertura: il pedinato doveva essere tenuto a distanza. E quando svoltava si perdeva in uno dei portoni. Di Maggio ci dice: eccolo, lo riconosco quel portone. Noi l’ avevamo gia’ individuato, il posto, attraverso un personaggio che lo stesso Di Maggio ci aveva confermato essere “ok”. Quello che e’ successo e’ una sorta di innesto tra situazioni positive e posizioni deduttivamente giuste. Il resto lo sapete. Abbiamo tenuto il portone sotto controllo. La mattina abbiamo visto uno strano movimento, abbiamo filmato, e’ partito il pedinamento sul soggetto” E rimasto sorpreso Riina quando “Ultimo” l’ ha bloccato? “Si’ . Non ha realizzato subito cosa fosse accaduto. Era scuro in volto, muoveva gli occhi di continuo. Cercava un perche’ . Quando gli siamo piombati addosso deve aver pensato a qualche suo nemico mafioso”. Nei vostri filmati precedenti figurano politici? “No. Abbiamo filmato personaggi inquadrabili nel gruppo dei corleonesi. L’ indagine continua”. Girava disarmato, il boss dei boss. “Normale, per lui. Primo: quella era la sua zona. Secondo: se porta documenti falsi e va in giro armato rischia a un normale controllo di essere arrestato. La sua era una prova di sicurezza e insieme di professionalita’ . Mi viene in mente un esempio acuto del generale Subranni, che comanda il Ros. Riina, con quella faccia e con in mano un sacchetto di plastica, si fa accompagnare dall’ altra parte della strada da un poliziotto o da un carabiniere. Non sara’ successo ma e’ molto verosimile. Questa era la forza di Riina e di Palermo”. Le impressioni su di lui. “Dietro quell’ aspetto dimesso due occhi azzurri freddissimi che ti guardano per capire a cosa stai pensando”. Piu’ rappresentativo di Liggio, di Greco, di Calo’ ? “Certo. A suo modo, diciamo che e’ il “migliore”. Liggio in dieci anni e’ stato arrestato tre volte e lui in ventiquattro anni una volta sola. A Palermo questo conta, e tanto. Greco? Recita, parla della Madonna. Calo’ ? E piu’ cittadino: come Buscetta, gli piace il buon albergo, il buon ristorante. Questi, i corleonesi, sono duri, sono gente di campagna. Piu’ rigore, piu’ sobrieta’ , piu’ crudelta’ asettica. Questa e’ la garanzia di un potere forte”. Insomma, il boss dei boss e’ un contadino. “La mentalita’ e’ quella. Ricorda . dice Mori . Mastro Don Gesualdo e l’ attaccamento alla roba. Ha i milioni ma continua a mangiare pane e cipolle. Non gli interessa un bel bagno. Il suo orizzonte e’ la roba, e la roba e’ il potere. Riina non e’ vissuto da ricco. Mai. I miliardi? Li investiva, magari nelle imprese. Ma pensava anche ad acquistare tanta terra”. E gli incontri con i politici e gli imprenditori? “Sono convinto che non ha mai incontrato direttamente personaggi di spicco. C’ erano sempre rapporti mediati. E le dico di piu’ : penso che il politico puro, a pelle, gli facesse anche un po’ schifo. Sul documento falso c’ era scritto “bracciante agricolo”. Pero’ attenzione: ha una personalita’ forte, grezza ma carismatica. Ha letto molto. Le costruzioni delle sue frasi sono perfette. E un uomo preparato, con buone nozioni giuridiche”. Cosa accadra’ ora al vertice della mafia? “Bisogna vedere se la successione era stata gia’ decisa. Cosa Nostra potrebbe rimanere ferma per tre o quattro anni. Poi qualche bella testa dira’ che la mafia e’ finita e loro rialzeranno la testa. Non credo ci sia oggi una personalita’ tale da raccogliere lo scettro di Riina avendo l’ unanimita’ dei consensi. E potremmo avere uno scontro duro tra i corleonesi e gli altri”. Aveva con se’ un dollaro portafortuna, Riina? “Si’ . “Ma non ha funzionato”, ha detto”.

Guido Gentili per Il Corriere della Sera del 28 gennaio 1993

Tante ipotesi per una caduta. Dov’è la verità ?

ROMA – “Bisogna far passare qualche giorno, forse qualche settimana. Bisogna fare delle verifiche, controllare e ancora controllare. Bisogna vedere che cosa succede dopo l’ arresto del boss. Ci sarà uno scontro militare interno all’ organizzazione o Cosa Nostra sarà in grado di riprodurre una nuova leadership? Oggi, c’ è una sola preoccupazione in cima ai nostri pensieri: cautela”. Cautela è la parola d’ ordine degli addetti ai lavori del “caso Riina”. Nessuno – investigatore o magistrato – vuole sbilanciarsi. Tutti vogliono veder meglio, al di là delle modalità della cattura, le “ragioni” di quest’ arresto dopo tanti anni di latitanza. Senza togliere nulla alle capacità investigative dei carabinieri, c’ è chi affaccia il dubbio che Riina possa essersi consegnato, che il suo arresto possa essere, in realtà, una resa obbligata dalle necessità interne dell’ organizzazione in difficoltà. C’ è chi, pur osservando che, in ogni caso, è meglio un Riina in manette che un Riina latitante, avanza l’ ipotesi che la “caduta” del boss possa essere il passaggio obbligato di un mutamento nella strategia di Cosa Nostra. Non c’ è stato ancora tempo per controlli e verifiche. La “confessione” di Baldassare Balduccio Di Maggio è del 9 gennaio. L’ indicazione per mettere in trappola il boss dei boss andava subito verificata. E, verificata, ha dato il migliore dei risultati possibili: l’ arresto di Riina. Solo ora comincia il tempo dei controlli e dei perché, dei tanti perché di questa improvvisa caduta. E’ stato “venduto” Totò u curtu? E da chi? Dalle famiglie (i Madonia, i Ganci, i Brusca, i Gambino) che, per un lungo periodo, gli hanno garantito cieca e, forse, terrorizzata obbedienza? O il boss è stato tradito dalla sua stessa famiglia? Di certo, la caduta di Riina libera Cosa Nostra di un “dittatore”, che con i suoi giochi doppi e metodi crudeli, aveva indotto decine di soldati e killer e capi alla diserzione. L’ arresto offre all’ organizzazione la possibilità di abbandonare la “politica” suicida di uno scontro frontale con lo Stato (in ogni caso, perdente) per riprendere a tessere, come sempre, il filo della connivenza, della collusione. Strategia tanto più favorevole oggi quando un’ intero sistema politico è in crisi e il nuovo ancora non si è affacciato. In questa interpretazione, l’ arresto di Riina sarebbe l’ unica possibilità a disposizione di Cosa Nostra per smettere i vecchi, insanguinati e consunti panni indossati negli anni Ottanta per indossare un abito più moderno, meno compromesso, più adeguato agli interessi dell’ organizzazione degli anni Novanta. Il sospetto di una manovra di Cosa Nostra è avanzato esplicitamente il leader della Rete, Leoluca Orlando in un’ intervista all’ Europeo. “L’ arresto di Totò Riina – sostiene Orlando – ricorda l’ uccisione del bandito Salvatore Giuliano”. L’ ex-sindaco di Palermo, che ritiene non ci siano retroscena sconvolgenti dietro la cattura del capo di Cosa Nostra, dice infatti che “Giuliano fu venduto ai carabinieri, anzi la mafia lo consegnò loro già morto e in cambio Cosa Nostra godette di almeno vent’ anni di impunità, tutto il tempo necessario cioè per cambiare pelle: per passare dalla mafia dei campi a quella della droga e degli appalti”. Orlando si augura che l’ arresto di Riina non rappresenti “il passaggio obbligato di Cosa Nostra verso la terza mafia”. E spiega che la cattura del boss potrebbe dare il via libera a una nuova mafia “tutta dimensionata sui mercati internazionali, in particolare sui mercati ancora vergini dell’ Est europeo, affamati di droga, ma anche di traffico d’ armi”. Per Orlando, un grosso ruolo potrebbe essere giocato dalla massoneria internazionale, all’ interno della quale è in corso una resa dei conti: “Così come l’ uccisione di Giuliano ha dato il via libera all’ ingresso della mafia nella politica nazionale, l’ arresto di Riina consentirà l’ ingresso di Cosa Nostra, magari sotto altro nome e certamente insieme ad altre mafie, nella politica internazionale”.

La Repubblica del 19 gennaio 1993

«Il superboss catturato con 20 anni di ritardo»

ROMA – “Impossibile vivere vent’ anni nella stessa città senza essere mai preso”. Parola di Buscetta. E don Masino è uno che di latitanza se ne intende. “Riina godeva di compiacenza da parte molte persone…”. E per questo l’ ha fatta franca così a lungo. “Girava per le strade di Sicilia tranquillamente”, s’ incupisce don Masino, e nessuno lo ha mai fermato prima. Perché? Già: perché solo adesso è scattata la trappola? La domanda rischia di far più chiasso degli applausi per la cattura. Di guastare la festa. Di schizzare fango. Suona come un malizioso, frustrante atto d’ accusa, quel “perché solo ora”. Il cono d’ ombra del sospetto ci prova a oscurare la vittoria dello Stato. Sfiducia. Delusione. C’ è un pezzo d’ Italia che non può rinunciare facilmente allo scetticismo. Neanche adesso. S’ aspetta vermi sotto il sasso, anche stavolta. E’ l’ Italia delle vittime, per esempio. Dice Manfredi Borsellino, figlio del magistrato ammazzato: “Penso che anche con mio padre vivo si sarebbe potuti arrivare a quest’ operazione soltanto con i carabinieri. E poi, è un’ opinione del tutto personale: l’ Arma è più libera di agire di altri apparati dello Stato”. Allude per caso ad apparati inquinati? Non allude, invece, la vedova La Torre, onorevole Giuseppina Zacco (pidiessina). E’ decisamente esplicita: “C’ è una correlazione tra l’ arresto di Riina e la vicenda di Bruno Contrada?”, domanda. Contrada, funzionario del Sisde a Palermo, in galera perché “troppo vicino alle cosche” secondo le gole profonde. Così vicino da far da guardaspalla a Totò? – è il quesito che nessuno vorrebbe mai porsi. “L’ impunità di Riina è durata ventitré anni perché settori dello Stato e politici conniventi l’ hanno protetta e garantita”. E’ acida la sentenza della vedova La Torre. Agita dubbi terribili, la vedova, e va anche più in là: “Appare evidente che non può esser stato un unico funzionario a garantire impunità. Comunque per me l’ arresto di Riina e quello di Contrada non sono scollegati. Anzi, l’ uno potrebbe essere la conseguenza dell’ altro. Ha ragione il giudice Di Lello: Riina è stato preso perché hanno voluto prenderlo. E con la cattura di Contrada alcuni ostacoli sono stati superati”. Accuse dirette e indirette. Mezze parole, per evocare la verità, farla venire a galla, spazzare le ombre. Di Totò in gabbia, così dice il procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra: “E’ l’ ennesima dimostrazione che quando ognuno fa il suo dovere le cose marciano”. Perché, qualcuno il suo dovere altre volte non l’ ha fatto? Ayala che sbotta: “Se lo si voleva acciuffare prima, lo si poteva fare eccome…”. E lo stesso colonnello Mario Mori, vicecomandante dei “Ros”, le squadre speciali di Cc che incassano l’ impresa dell’ anno, ammette: “Poteva andare anche meglio…”. In che senso, colonnello? Lo potevate catturare un anno fa? Dieci anni fa? Questo sospetto è un tarlo, colonnello, per il paese civile… Risponde Mori: “In vent’ anni è cambiata Palermo, è cambiata l’ Italia rispetto alla mafia. Vent’ anni fa, ‘ mafia’ a Palermo per tanti non era nemmeno una brutta parola. Riina è in galera adesso perché solo adesso ci poteva finire, mi creda. Perché adesso ci sono le leggi che favoriscono i pentiti. Perché quando si dà la caccia a un latitante, lo si può fare nel modo adeguato. E infatti le intercettazioni ambientali sono roba recente. Recente è anche la nomina di un superprocuratore. Le armi che abbiamo sono più affilate”. Dunque, nessun arresto a orologeria? Mori sorride: “A ogni successo ci piovono addosso le pietre. E’ una regola”. In viale Romania, al Comando dell’ Arma, si sforzano di stoppare le “dietrologie”, come le chiamano. “Perché adesso? Perché, ad esempio, adesso ci sono i Ros che da settembre stavano addosso a Riina. Prima si lavorava col comando provinciale, nessun coordinamento nazionale. Era dura seguire le orme di un latitante senza mettere il naso fuori da Palermo e dintorni. No, dieci anni fa non c’ erano le condizioni di oggi: i pentiti, le squadre giuste…”. “In ogni caso – mette in chiaro il colonnello Mori – Se qualche connivenza ha ritardato l’ operazione lo sapremo in futuro. Ma a chi mette in giro un’ accusa senza prove io rispondo: io invece mi regolo come san Tommaso. Prima tocco con mano poi ti dico che è vero. Prima verificare i fatti, chi parla e straparla lo vada a fare altrove”. Ma anche Pietro Folena, deputato Pds, indugia sul dubbio: “Era Contrada il ‘ muro’ che impediva la cattura di Riina?” E cosa vuol dire quell’ ufficiale dei Cc, rimasto anonimo, che sussurra alla stampa: quando si saprà con chi aveva contatti Riina qualcuno, a Palermo, dovrà andarsene per la vergogna. Vincenzo Parisi ha un gesto di fastidio. Vuol essere pacato, calcola al millimetro la risposta: “Vede, io Riina non l’ ho mai visto. A me nessun politico ha mai chiesto di accelerare o rallentare una cattura. Anche perché io li informo sempre a cose fatte. Quell’ ufficiale ci dovrebbe spiegare chi è quell’ ‘ amico’ di Riina che dovrebbe sloggiare da Palermo. Faccia il nome, così quello se ne andrà davvero. Sono pronto a schierarmi dalla sua. Contrada? Il 26 all’ Antimafia racconterò quello che so. Dire che i due arresti sono collegati è un’ opinione, una deduzione. Vale quel che vale. Io, di deduzioni, non ne faccio. Non ne so nulla. Io preferisco le prove alle deduzioni. A Palermo tutti lanciano accuse. Di dimostrarle si preoccupano in pochi. Lasciamo che i magistrati lavorino in pace”.

Marina Garbesi per La Repubblica del 17 gennaio 1993

«Generale, parlerò … sono l’autista di Riina»

TORINO – “Dite al generale Delfino che sono un uomo morto, ma che sono anche un uomo d’ onore. Vogliono ammazzarmi, ma mi fido solo di lui e posso raccontare molte cose. Voglio parlargli…”. E’ il mattino di sabato 9 gennaio e la comunicazione arriva nell’ ufficio torinese del generale Francesco Delfino, comandante della Regione Piemonte dei carabinieri. Per Totò Riina, per quella sua feroce leggenda di “imprendibile” di Cosa Nostra, è l’ inizio della fine. Delfino parte in auto, diretto a Novara. Lì, in una caserma dei carabinieri, lo aspetta Baldassarre Di Maggio, 39 anni, di San Giuseppe Jato (Palermo) un volto e un nome sconosciuti per le cronache di mafia, ma anche per quelle della malavita comune. E’ un insospettabile, un incensurato “senza storia”. Ma appena incontra Delfino, comincia a disegnare uno scenario che è subito sensazionale: “Io sono l’ autista di Totò Riina, io lo accompagnavo a Palermo, in Piemonte, in Lombardia. Io lo seguivo nei suoi viaggi in Germania. Mi ricordo di lei, di quando era a Palermo come vicecomandante della Legione Carabinieri. Adesso, però, quelli della famiglia di San Giuseppe Jato (la più vicina a Totò Riina, n.d.r.) mi hanno condannato a morte e io sono qui. Ma vi posso dire dov’ è lui”. Il racconto, il lungo racconto del primo grande “pentito” di mafia incensurato e insospettabile, prosegue poco dopo attorno a un tavolo. Ma perché Di Maggio è a Novara? Qui la ricostruzione diventa più difficile. Si comincia a scavare negli archivi e si scopre una flebile traccia. Baldassarre “Balduccio” Di Maggio era davvero incensurato, ma soltanto sino al 17 novembre 1992. Quel giorno, la procura di Caltanissetta fa scattare l’ “operazione Leopardo”, nata dalle confessioni di Leonardo Messina. Nel lungo elenco degli ordini di cattura c’ è anche il suo nome. I magistrati lo definiscono come “un avvicinato alla famiglia di San Giuseppe Jato, collegato a Brusca Giovanni, figlio del capofamiglia Bernardo, di mestiere carrozziere ed ex imprenditore edile. Senza precedenti penali ma proposto per la diffida, viste le sue frequentazioni, nell’ 82 e nel ‘ 90”. In concomitanza con il blitz, “Balduccio” fugge al Nord dove era già stato tante volte, al seguito proprio del suo “capo”. Scappa ai carabinieri, ma soprattutto ai killer. Poco tempo prima infatti, è passato direttamente al servizio di Riina, il boss dei boss che naturalmente “controlla” anche i Brusca. Ma nel frattempo nascono dissapori e qualcuno decide di farla pagare “a chi ha sbandato”. Di Maggio si rifugia prima a Viggiù (Varese) e poi a Borgomanero (Novara) dove entra in contatto con altri “uomini d’ onore” che, però, sono seguiti dagli inquirenti. Quella nuova presenza non sfugge ai carabinieri che decidono di fermarlo: “Un fermo con poche speranze. Era incensurato, sembrava destinato ad andarsene dopo mezz’ ora e con tante scuse…”. Una pistola calibro 9 Siamo a venerdì 8 gennaio, una settimana fa. Nell’ alloggio dove l’ uomo d’ onore si è rifugiato, i carabinieri trovano una pistola calibro 9 e due caricatori. Finisce nel carcere di Novara e l’ accusa è di “detenzione abusiva di armi”. Le cronache locali liquidano tutto come un arresto nell’ ambito di “una normale operazione di controllo”. Ma non è così. Baldassarre Di Maggio compie la scelta della sua vita. Capisce che può trovare la protezione cercata invano in tutti quei mesi. Fa chiamare Delfino e poi incomincia a parlare. Chiede assicurazioni su una libertà futura, forse chiede anche denaro: “Molto, una somma ingentissima…”. Forse miliardi. Le prime parole, però, sono per Riina. Sul tavolo compare un foglio, poi una matita e le mani di Baldassarre cominciano a disegnare gli incerti contorni di un quartiere di Palermo, il “regno” del boss. Ecco una croce per indicare il covo, ecco viale della Regione Siciliana: “Sì, qui potrete prenderlo, di mattina. Proprio qui”. Ecco un numero di targa e un tipo di auto: “Una Citroen, quella di Totò”. Il rapporto con Francesco Delfino è subito vincente. Il generale, calabrese, 56 anni, è figlio del mitico maresciallo Giuseppe Delfino, detto “massaro Peppe”, immortalato da Corrado Alvaro nei suoi racconti e scopritore del primo codice segreto della ‘ ndrangheta dell’ Aspromonte. Quando era ancora capitano, nel 1974, sferrò un durissimo colpo contro i neofascisti a Brescia, catturando Carlo Fumagalli. Alla fine degli Anni Ottanta, con le stellette di colonnello, è nominato vice comandante della Legione di Palermo. Ma la sua permanenza in Sicilia dura poco, cinque mesi, durante i quali però trova il tempo di occuparsi di Salvo Lima. L’ alto ufficiale, dopo aver ascoltato Di Maggio, capisce che non si può più indugiare. Si avverte Torino, dove il caso vuole che ci sia proprio il nuovo procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, nominato il 17 dicembre. Delfino lo conosce sin dai tempi del terrorismo, quando l’ ufficiale collaborava a Milano con Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Venga subito, è la pista buona”. Lunedì scorso, di sera e sempre a Novara, Baldassarre Di Maggio comincia a dettare il suo verbale davanti al magistrato e a un avvocato torinese, già difensore di un superpentito catanese. Ridisegna ancora il grafico che sarà usato per catturare Riina. Nasce il primo interrogativo inquietante per gli inquirenti. Perché parla? Lo manovra qualcuno che vuole “fottere” il boss dei boss? I dubbi durano poco, perché Di Maggio racconta subito ben altro: “Quindici anni di storia mafiosa aggiornati sino a dieci giorni fa. Nomi di politici, colletti bianchi, boss e killer. Almeno duecento nomi per futuri arresti, tutta gente da assicurare alla giustizia… Nessuna verità ascoltata da altri, ma tutti fatti ai quali ha preso parte in prima persona”. Trentadue delitti in un solo giorno Le domande più pressanti riguardano quei due nomi-simbolo, quelle due stragi “colombiane” con l’ esplosivo: Falcone e Borsellino. Di Maggio parla ancora, ma questa volta nulla trapela: il segreto è assoluto. Poi una rivelazione terribile e assurda nella sua enormità: “Un giorno la mafia ha ucciso 32 persone nello stesso giorno. I cadaveri sono stati distrutti…”. Attimi di incredulità, ma il “pentito” continua e fornisce riscontri, indicazioni precise, quasi tutte già accertate. “Balduccio” dice il vero. Molti fogli bianchi si riempiono adesso delle notizie più attese: “Una mappa completa della mafia siciliana aggiornata all’ 8 gennaio 1993. L’ elenco delle famiglie, i nuovi capi, i killer e, soprattutto, gli affiliati insospettabili con riferimenti anche al mondo politico”. Per il momento, è la fine. Caselli si mette all’ opera e contatta Palermo. I Ros dei carabinieri raccolgono le informazioni su Riina che esaltano il lavoro già compiuto nei mesi scorsi. Si prepara la trappola per il superlatitante. Intanto le notizie giungono anche a Luciano Violante, presidente della commissione Antimafia che segue passo per passo il percorso del “pentimento” di Di Maggio. Venerdì mattina, alle 8.10, l’ “operazione belva” va in porto. Baldassarre Di Maggio, però, non è più a Novara, ma in una camera di sicurezza della caserma “Bergia” di Torino dove continua il suo racconto, aggiungendo particolari, precisando nomi e fatti. E ogni tanto ripete le prime frasi del suo “pentimento”: “Sono incensurato ma divenni un uomo d’ onore. Mi bucarono un dito facendo scendere il sangue. Poi raccolsi le due mani e cominciarono a bruciare l’ immagine della Vergine. E io dovevo ripetere: ‘ ‘ Possano le mie carni bruciare come questa carta santa se io tradirò…’ ‘ “.

Ettore Boffano e Alberto Custodero per La Repubblica del 17 gennaio 1993

“Baldassarre” spifferò la dritta giusta

TORINO . Palermitano, 30 anni. Il suo nome sarebbe Baldassarre. Questo lo scarno identikit dell’ uomo che dal Piemonte ha messo le forze dell’ ordine sulla pista giusta nell’ “Operazione belva”, culminata con la cattura di Toto’ Riina. Sono i primi spezzoni di verita’ che trapelano dal cordone di silenzio steso attorno alla vicenda. A Torino nessuno parla, ma qualcosa si e’ riusciti ugualmente a sapere. Da Palermo gli investigatori continuano a ripetere che in tutta la brillante operazione non c’ e’ stato lo zampino di pentiti. Ammettono pero’ l’ esistenza di input importanti venuti da Torino. In effetti Baldassarre non sarebbe un vero e proprio pentito, ma piu’ precisamente un confidente. Tutto sarebbe iniziato alcune settimane fa. Non e’ ancora chiaro se spontaneamente o se perche’ coinvolto in un’ operazione anticrimine, Baldassarre entra in contatto con i carabinieri. Dopo qualche “preliminare” decide di vuotare il sacco, di dire le importantissime cose di cui e’ a conoscenza. A Torino il comando della Regione Piemonte e’ stato affidato da qualche mese al generale Francesco Delfino, brillante ufficiale che negli anni scorsi e’ stato anche a Palermo. Baldassarre lo conosce e si fida. Sarebbe stato l’ ufficiale a raccogliere le prime confidenze di Baldassarre, a chiedere le verifiche ai colleghi di Palermo. Il colonnello Emo Tassi, vice di Delfino, diventa l’ anello di collegamento tra Piemonte e Sicilia e anche per questo l’ altro giorno e’ presente alla conferenza stampa di Palermo subito dopo la cattura di Riina. I primi riscontri sui racconti di Baldassarre sono positivi. Il confidente non sa dove si nasconda il capomafia, ma sa chi sono i suoi piu’ intimi amici, conosce i luoghi che frequentano, forse ha avuto modo di entrare in contatto con parenti del boss. L’ operazione fa dunque alcuni primi decisivi passi ed ecco allora entrare in scena un altro inquirente torinese, il giudice Giancarlo Caselli. Prima di prendere possesso dell’ incarico di procuratore della Repubblica a Palermo, il magistrato viene informato dell’ esistenza dell’ informatore, lo ascolta. E cosi’ si spiega perche’ Caselli . che a Torino stava per concludere, come presidente di Corte d’ assise, un processo per omicidio . decide di non finire la causa e di accelerare al massimo il suo trasferimento. L’ altro giorno dirige personalmente, a Palermo, l’ operazione della cattura di Riina. In Sicilia viene anche trasferito, quattro giorni fa, il confidente. Perche’ ha deciso di collaborare? Su questo aspetto il silenzio e’ assoluto, il mistero ancora fitto. Forse Baldassarre ha motivi di inimicizia nei confronti del boss mafioso o dei suoi fedelissimi. Le spietate esecuzioni che hanno insanguinato Palermo in questi ultimi anni potrebbero aver colpito anche qualche suo familiare. E un’ ipotesi fra le tante che si potrebbero avanzare. Cosi’ come e’ possibile che il confidente conosca molti segreti della mafia palermitana e che il suo contributo non si sia solo limitato alla cattura di Riina. Intanto attorno a lui si e’ stretto, ferreo, il cerchio della protezione. Ma anche per Riina le autorita’ hanno preparato eccezionali misure di sicurezza. Nicolo’ Amato, direttore degli Istituti di pena, all’ inaugurazione dell’ anno giudiziario, a Torino, ha ammesso: “Sappiamo bene che la detenzione di Riina ci pone dei problemi di sicurezza, non solo per cio’ che puo’ fare il detenuto, ma anche per cio’ che qualcuno gli puo’ fare”. Amato ha fornito i dati aggiornati sui reclusi per reati di mafia: sono 5247, di cui 1045 in massima sorveglianza. I pentiti sono circa 200 e il loro numero e’ in continuo aumento.

Edoardo Girola per Il Corriere della Sera del 17 gennaio 1993

Il politico alla corte della belva

PALERMO . I carabinieri hanno un film che documenta un recentissimo incontro di Toto’ Riina “con una persona che neanche ve lo immaginate”. Basta questa frase buttata li’ quasi per caso da un ufficiale dell’ Arma nel cortile della Legione di Palermo per scatenare la caccia all’ “eccellente” o agli “eccellenti” che fino a pochi giorni fa hanno trattato o trafficato con il numero uno di Cosa Nostra. Fra gli altri un personaggio politico di primo piano sulla scena nazionale. Un nome top secret. Nessuna ammissione finora da parte di Riina che ha trascorso un’ ora con i magistrati per il cosiddetto “atto di identificazione”, una formalita’ che e’ servita a mettere l’ uno di fronte all’ altro il “dittatore” e il nuovo Falcone di Palermo, Giancarlo Caselli. Paziente e rispettoso, sforzandosi malamente di parlare un italiano senza inflessioni dialettali, “Toto’ ‘ u curtu” si alzava in piedi ogni volta che rivolgeva la parola al nuovo procuratore della Repubblica, a sua volta sorpreso dai modi di questo omone con una pancia a forma di pallone, dimesso come un contadino al ritorno dai campi, “apparentemente disponibile e quasi mite”, come dice il sostituto Guido Lo Forte al quale e’ sembrato “un siciliano di un tempo che non c’ e’ piu’ “. L’ hanno trovato con 7 milioni in tasca ma senza un’ arma, accompagnato da uno sconosciuto operaio forestale, Salvatore Biondino, reclutato da Riina come uno dei suoi “picciotti” arrestato a Novara e convinto dai carabinieri a indicare il padrino alla moviola. E adesso lui non si fida piu’ nemmeno della sua ombra, taciturno ma rassegnato, lasciandosi fotografare anche quando lo piazzano prima accanto a una foto di Dalla Chiesa e poi accanto al sorriso di Falcone e Borsellino. Capisce che quelle non sono le “segnaletiche” di routine ma istantanee scattate come trofei di guerra da carabinieri felici di vendicare con la legge i loro martiri, i loro amici. Capisce e subisce protestando solo con un gesto per rifiutare il cibo, un passato di verdure e mezzo pollo al forno. Accetta solo un caffe’ e una minerale, dice di avere “problemi di salute al cuore”, non vuole un medico ma gli avvocati e nomina il vecchio Nino Fileccia che in estate fece sapere della sua presenza a Palermo e Nino Mormino, lo stesso difensore dei Madonia. Non sa ancora che l’ hanno incastrato dopo cinque mesi di pedinamenti e controlli effettuati con microspie, microfoni direzionali, telecamere e mezzi in grado di registrare a trecento metri di distanza, due pullmini e una sorta di regia mobile, insomma un’ attrezzatura usata dai militari del Ros come fossero la Cnn dell’ anticrimine per portare ai giudici non solo testimonianze verbali ma documentazioni inequivocabili sulle frequentazioni di Riina. L’ uomo di Novara, del quale sarebbe indispensabile non rivelare il nome sui giornali, in sala regia ha potuto sciogliere i dubbi sorti davanti a quattro, cinque personaggi tutti simili alle vecchie foto di Riina. “E’ lui”. E ha puntato il dito sul patriarca che, ignaro delle riprese, in una strada dell’ Uditore arrancava con passo insicuro per una leggera zoppia. I carabinieri non possono raccontare tutti i retroscena, come spiega un ufficiale parlando con dieci giornalisti: “Ci vorranno altri tre mesi di lavoro per sviluppare una montagna di documenti e una fitta rete di relazioni. Ma poi qualcuno se ne dovra’ andare via con grande vergogna”. Da dove? “Da Palermo. Perche’ Riina ha incontrato qualcuno che neanche ve lo immaginate. Questi incontri si possono fare anche per interposta persona”. E’ il colonnello Mori, estraneo a questa conversazione, ad aggiungere poi che “l’ operazione poteva andare meglio”. Ce n’ e’ quanto basta per fare scattare inquietudini diffuse perche’ la meraviglia suscitata da quegli incontri non puo’ essere determinata dai rapporti che Riina potrebbe avere intrattenuto con altri mafiosi. Top secret. L’ inchiesta e’ in pieno svolgimento e gli stessi uomini che hanno accerchiato Riina sono ancora in campo nella zona dell’ Uditore dove il protagonista dell’ “Operazione Belva” aveva uno dei suoi rifugi individuati dalla squadra di un giovane capitano chiamato in codice “Ultimo” anche se e’ arrivato primo. Fra le carte finora sequestrate alcune sarebbero state trovate a bordo della Citroen di Riina e Biondino. Riguardano una societa’ finanziaria adesso passata ai raggi X negli uffici del Ros di Palermo dove ieri mattina e’ arrivato il comandante generale Antonio Viesti, soddisfatto perche’ di fronte alla caserma ondeggiano grandi cartelli: “Viva i carabinieri”. La gente inneggia e i magistrati vengono a ringraziare. Su una blindata guidata dal maresciallo Carmelo Canale, l’ uomo piu’ vicino a Borsellino, arrivano anche la moglie e i tre figli del magistrato. Gioia e tristezza traspaiono dalle parole di Manfredi: “Si stava per giungere a questi risultati prima della morte di mio padre ma questa volonta’ ce l’ avevano solo alcuni”. Un richiamo giunto al Palazzo di giustizia dove si preparano i primi interrogatori del boss trasferito con un elicottero ieri mattina a Roma in gran segreto anche se per l’ atterraggio e’ stato scelto il posto meno indicato, il piazzale a due passi dal campo in cui si stava allenando la Lazio con decine di giornalisti e cameramen appollaiati in gradinata, pronti a lanciarsi verso “u’ curtu” che ha provato a nascondere la faccia con un giaccone correndo verso una delle sei Alfette per il viaggio verso la cella di Rebibbia, la stessa in cui si penti’ Ali Agca.

Felice Cavallaro per il Corriere della Sera del 17 gennaio 1993

«Tutti i segreti della cattura»

L’operazione è stata anticipata perché il padrino aveva già ricevuto segnali d’allarme. L’ufficiale gli stringe la sciarpa e Riina cede

Il Padrino in manette esce di scena, almeno per il momento. Ricomparirà quando sarà l’ora degli interrogatori. Si lascia alle spalle una lunga sequenza di misteri, di interrogativi. I mille buchi neri di un’inchiesta clamorosa che ha sancito la fine del capomafia più «famigerato» che abbia mai governato Cosa Nostra. Chi ha «venduto» Totò Riina? Come lo hanno preso? Perché adesso? Il giallo alimenta ricostruzioni fantasiose. I carabinieri negano, depistano, confermano improbabili verità. Tutto come da copione: non si può pretendere che la più grossa operazione degli ultimi anni venga bruciata per qualche incontinenza verbale. Una ricostruzione, per forza di cose parziale, tuttavia è possibile. IL FILM DELLA CATTURA. Sono da poco passate le 8,15 di venerdì, quando la Citroen ZX lascia il «covo» di Riina. Alla guida c’è Salvatore Biondino, 40 anni, bracciante agricolo, anzi «giomatiere» attualmente disoccupato ed iscritto nelle liste dell’ufficio di collocamento dopo un periodo di «servizio» (45 giorni) come operaio della Forestale adibito al rimboschimento. Gli investigatori conoscono da poco Biondino: lo pongono sotto osservazione dopo aver avviato l’inchiesta per la cattura di don Totò. L’uomo è incensurato, abita in via Trancbina, una strada del quartiere San Lorenzo, «regno» di Francesco Madonia, il boss che risulta essere il più fidato alleato di Riina. Proprio a San Lorenzo, anzi, Riina ha abitato a metà degli Anni 70, subito dopo il matrimonio clandestino con «Ninetta» Bagarella, la maestrina di Corleone. Don Totò prende posto accanto a Biondino e l’auto si avvia. Dove siamo? Non ci sono conferme, anzi la esatta ubicazione dell’abitazione rappresenta il primo mistero dell’adire Riina. Si dice che la casa divenuta famosa in tutta Italia, senza che nessuno l’abbia mai vista, tranne i carabinieri che hanno operato, sia in realtà una villa sulla Circonvallazione. Vi si accede da un cancello: prima un pezzetto di viale, quindi la casa. Una «villa lussuosa», o quantomeno eccessiva per un disoccupato. Sì, perché il «covo», ennesima sorpresa, sembra appartenere a Biondino. L’auto, raccontano voci anonime, ha percorso un tratto di strada ad andatura lentissima. Quattro equipaggi dei carabinieri, una parte delle squadre da settimane attaccate alla casa come ricci agli scogli, seguono la Citroen. Non sono tranquilli, i segugi. Qualcosa – inutile sperare di sapere di più – li ha messi in agitazione, tanto che sin dalle cinque del mattino hanno allertato il colonnello Mario Mori, vicecomandante del Reparto operazioni speciali. Cosa? Forse una telefonata ricevuta dal boss, o forse un colloquio captato dalla casa con qualche spia elettronica. Forse temono che il boss stia per tentare un colpo di mano. Per questo decidono di intervenire, rinunciando probabilmente ad un risultato che avrebbe potuto essere più clamoroso. «Poteva andare meglio», si sono lasciati scappare gli ufficiali dell’Arma. L’operazione, così, scatta alla seconda «rotonda» della Circonvallazione, quella di via Leonardo da Vinci, che immette in via Uditore. La Citroen viene affiancata da due auto «civetta» dei militari. Altre due stanno a distanza di sicurezza. E’ questione di un attimo: mentre alcune pattuglie «creano» un ingorgo per tenere lontanto il traffico con una sorta di cintura protettiva, i carabinieri bloccano i due, li tirano fuori di peso e li obbligano a distendersi sull’asfalto: «Faccia in giù». La gente guarda, centinaia di testimoni non sanno cosa stia accadendo. Chi immagina un incidente stradale, chi ipotizza una rissa. Don Totò e il suo autista-tuttofare vengono caricati su un’Alfa e via, sgommando. I carabinieri gettano loro una coperta sulla faccia: non vogliono essere visti. Durante il tragitto, un ufficiale «tiene» don Totò per la sciarpa, la stringe sul collo gridando: «Tu sei Totò Riina, dillo che sei Riina». Dapprima il Padrino non risponde, poi, in segno di resa, abbassa la testa annuendo. Quando entra in un ufficio della Legione, il boss è già un «ex». Ironia della sorte, va a sedersi su una sedia, assumendo una prospettiva che è l’emblema della sua sconfitta. A testa bassa, sovrastato dal ritratto del generale Dalla Chiesa e, accanto, quello di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme. Così lo trovano i magistrati della Procura di Palermo, accorsi per la prima presa di contatto. Il resto della giornata trascorre lenta e il boss non aprirà bocca. Solo uno scambio di battute col colonnello Mori per confermare: «Sono Salvatore Riina». Non ha fame, il Padrino: rifiuta pollo e verdure, a pranzo. CHI L’HA VENDUTO. E’ il capitolo più dibattuto dell’affaire. Una lettera anonima di qualche mese aveva anticipato la «resa» di Salvatore Riina: incredibilmente la pista viene ora rilanciata dalla troppo repentina ricomparsa della moglie, signora Bagarella, e dei figli. Questa pista è «bollata», forse giustamente, come «troppo dietrologica». C’è una storia che sembra più concreta: un pentito. Si chiama Baldassare Di Maggio, originario di San Giuseppe Jato (Palermo). Lui ha messo a disposizione dei carabinieri di Novara una serie di noti¬ zie che avrebbero «agevolato» un lavoro già iniziato. Il siciliano, attualmente detenuto in Piemonte, si è rivolto al generale Francesco Delfino, comandante dell’Arma in Piemonte. Ha raccontato fatti ed episodi, ha illustrato abitudini ed amicizie di don Totò Riina, essendone stato l’autista per alcuni anni. Il generale Delfino, poi, ha attivato il Ros, dopo aver concordato una linea col giudice Caselli, prossimo a dirigere la Procura di Palermo. Ma perché Di Maggio avrebbe dovuto rivolgersi al generale Delfino? Il filo della storia torna indietro nel tempo, fino al 1989, quando l’ufficiale era vicecomandante della Legione di Palermo. Anche allora andò a cercare Riina. Fu un’operazione segreta: i carabinieri arrivarono ad una villa «megagalattica» nascosta nelle campagne tra San Giù- seppe Jato e Piana degli Albanesi. Una costruzione «mostro», otto camere da letto, infiniti servizi, telecamere, marmi e tutti i comfort. Ma non era questa la caratteristica principale: la villa disponeva di cunicoli sotterranei che finivano in territorio di Piana degli Albanesi. Campagna di proprietà del Padrino. Sì, lui, don Totò. La costruzione era intestata a Baldassare Di Maggio, il suo autista e guardaspalle. Un «giovanotto» svelto che con la pistola ci sa fare. Nella «megavilla» don Totò non c’era, le indagini si arenarono, anche perché alcuni giorni dopo il blitz il generale Delfino fu trasferito in Piemonte. Fu Di Maggio, dunque, a ricevere tutte le conseguenze negative per l’ufficiale possesso di quella casa. Cominciò allora il feeling coi carabinieri? Perché ad un certo punto, l’ex guardaspalle abbandonò la Sicilia, per riapparire adesso come «suggeritore» dei mille nascondigli di Riina? IL COVO «BRUCIATO». Nasconde qualche altro mistero. I carabinieri non ne vogliono parlare.* Però fanno intendere che sarà utilissimo per. ricostruire molto della vita di don Totò. Quella villa è stata fotografatale ripresa da telecamere che trasmettevano i filmati in «diretta» ad una centrale approntata per l’operazione «belva», com’è stata definita in gergo la cattura di Riina. Sono state riprese anche decine e decine di persone: alcune sono state identificate, altre lo saranno. E’ probabile, quindi, che nuovi arrestati raggiungeranno gli uffici della Legione carabinieri di Palermo. «Vedrete», diceva ieri un ufficiale, lasciando intendere di aver sotto tiro anche persone non propriamente «criminali». «Con la cattura di Riina abbiamo vendicato un sacco di gente, il generale Dalla Chiesa, il capitano D’Aleo, il capitano Basile, i giudici Falcone e Borsellino. Altri ne vendicheremo e qualcuno dovrà andare via con grande vergogna». Da dove? «Da Palermo». Si tratta di qualcuno dei signori «immortalati» dalle telecamere? E che direzione prenderà l’inchiesta, dopo la «lettura» della gran mole di documenti che il Padrino teneva in casa? Si parla di molte chiavi di accesso a santuari del riciclaggio di miliardi.

Francesco La Licata per La Stampa del 17 gennaio 1993

Ore 8,30: scattano le manette «Sì, sono Riina, complimenti»

PALERMO DAL NOSTRO INVIATO In tasca aveva cinquecentomila lire e qualche spicciolo, una scatola di pasticche per il mal di gola, nessun mazzo di chiavi. Nel portafoglio una fotografia della moglie Antonietta quando era giovane, al polso un orologio col cinturino di metallo, nemmeno troppo costoso. Infilata al dito solo la fede, qualche carta custodita in un anonimo borsello. Niente, insomma, che lo avvicini allo stereotipo del «boss dei boss». Ma quando s’è visto in trappola, costretto a declinare le vere generalità, s’è lasciato andare ad una frase che tutti avrebbero messo in bocca ad un vero «padrino» preso dopo una caccia durata 23 anni: «Sì, sono Salvatore Riina. Bravi, complimenti». La cronaca ufficiale dell’arresto è fin troppo scarna per essere la storia della battaglia più importante vinta dallo Stato nella guerra contro la mafia. E’ racchiusa tutta nei pochi minuti che precedono le 8,30 di ieri mattina. I carabinieri del Ros, in collaborazione con l’Arma di Palermo, pattugliano le strade intorno a via della Regione siciliana, periferia Ovest della città. Totò Riina esce da un appartamento di via Leonardo da Vinci, sale a bordo di una Citroen Zx azzurra, in compagnia di un altro uomo, di mezza età. Per circa cinquecento metri, la Citroen viene seguita da cinque auto «civetta» dei carabinieri. In una c’è perfino una telecamera, che riprende tutto. Subito dopo la rotonda, a ridosso di un motel dell’Agip, parte il segnale. «Adesso». Una delle «civette» accelera, affianca e stringe la Citroen, costringendola a fermarsi. Riina e il suo autista non hanno il tempo di scendere che si ritrovano circondati, da dodici carabinieri armati, un «cordone sanitario» che per un momento ha isolato il boss dai trambusto metropolitano dell’ora di punta. Si aprono le portiere, Riina esibisce un documento falso, con il nome e il cognome di un’altra persona. Non ha nemmeno la possibilità di protestare o di tentare la strada dello «spiacevole equivoco». Lui su un’auto e il suo autista su un’altra vengono immediatamente portati in una caserma, e lì il «padrino» per eccellenza, il capo dei capi di Cosa nostra, si arrende: «Sì, sono Salvatore Riina. Bravi, complimenti». «L’operazione è ancora in corso, stiamo effettuando accertamenti», ripetono i carabinieri che hanno condotto l’operazione sotto il controllo della procura di Palermo. Nessuna notizia sull’uomo che accompagnava il boss, solo che è un pregiudicato di piccolo calibro non sospettato finora di appartenenza alla mafia. La casa di via Leonardo da Vinci è stata perquisita, niente si sa su quello che c’era dentro. Sulla Citroen di Riina non c’erano armi né telefo ni cellulari. Il controllo del terri torio attraverso appostamenti, pedinamenti e intercettazioni te lefoniche andava avanti da quasi tre mesi, concentrato su Palermo centro e sulla periferia che ieri ha fatto da palcoscenico all’arresto. Poi, qualche giorno fa, è arrivata un’indicazione abbastanza precisa da un «collaboratore della giustizia» che si trova in Piemonte, a Novara. E’ stato informato anche il neoprocuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, che conosce da tempo il generale dell’Arma che ha raccolto la confidenza. L’operazione investigativa infilava così l’ultimo anello della catena, quello che ha portato dritti a Totò Riina. «Avevamo la quasi certezza che su quell’auto ci fosse lui», dice uno degli ufficiali che ha partecipato alla cattura. Per il procuratore Caselli era il primo giorno di lavoro. Si trovava in macchina, diretto in ufficio, quando l’hanno avvisato. Una coincidenza straordinaria ha voluto che al momento in cui prendeva possesso del nuovo, delicatissimo incarico, questo giudice venuto dal Nord si ritrovasse a disposizione il boss che tutti inse¬ guivano, il mafioso considerato responsabile della morte di centinaia di persone, comprese quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Hanno pensato a loro i magistrati della procura di Palermo, ieri mattina, quando s’è saputo dell’arresto. All’inizio era solo una voce, e quasi non ci volevano credere, poi è arrivata la conferma. «Il pensiero mio e credo di tutti gli altri colleghi – dice il sostituto procuratore Guido Lo Forte – è andato immediatamente a Falcone e Borsellino. Abbiamo pensato che almeno quelle due stragi non sono state inutili, anche se c’è un po’ di amarezza nel constatare che ci sono volute quelle morti perché lo Stato si decidesse a mettere in campo gli strumenti adeguati per combattere la mafia. Davvero avrei voluto che stamane Falcone e Borsellino fossero qui, a commentare con noi questa notizia». Il primo incontro di Riina con i rappresentanti della giustizia è avvenuto alle 13, in una stanza opoglia del rifugio scelto dai carabinieri per custodire il prigioniero più prezioso. Cinque sostituti procuratori – Lo Forte, Pignatone, Natoli, Patronaggio .e Scarpinato – si sono seduti davanti a quest’uomo di 62 anni, vestito con pantaloni di velluto e giacca marrone, una sciarpa verde al collo. I carabinieri gli hanno dato una camicia, al momento dell’arresto aveva un maglione a collo alto. A guardarlo bene in faccia si scorgono quei tratti somatici messi in rilievo dalle foto segnaletiche e dalle elaborazioni elettroniche che, con la collaborazione dell’Fbi americana, avevano ricostruito il volto con i segni dell’invecchiamento: la faccia di un uomo tarchiato, occhi piccoli e marroni, sguardo intenso, capelli brizzolati, niente barba né baffi. E poi una macchiolina bianca in una delle due pupille, uno degli elementi che hanno dato la certezza dell’identificazione. Ha l’aspetto gentile e mite di un tranquillo signore di campagna, Totò Riina. Parla con cadenza siciliana, ma non in dialetto. Risponde con garbo e con poche parole anche quando i magistrati gli comunicano che lo ritengono responsabile di centinaia di omicidi. Mai si potrebbe immaginare – racconta chi l’ha visto – che questo modesto agricoltore isolano sia il «dittatore» di Cosa nostra che hanno raccontato gli ultimi pentiti. E proprio il racconto di uno di questi, Giuseppe Marchese, ieri ha trovato un’ulteriore conferma. «E’ uno che ti fissa negli occhi e. ti ipnotizza, ti strega», aveva ;rktto Marchese. E’ quello che hanno pensato investigatori ed inquirenti che per ore hanno scrutato Totò «u curtu», il soprannome che deve ai 159 centimetri di altezza. Non s’è mostrato preoccupato, ma nemmeno estraneo, quando i magistrati gli hanno contestato i nove ordini di cattura che pendono sulla sua testa oltre alle imputazioni e alle condanne definitive – tra cui più di un ergastolo – accumulate nei vari decenni in cui ha fatto parte della «cupola», la commissione che decide tutte le mosse di Cosa nostra, a cominciare dagli omicidi «eccellenti». Non ha battuto ciglio, ha indicato gli avvocati di fiducia, adesso lo aspettano sette giorni di isolamento, il massimo consentito dalla legge. E’ il tempo che servirà ai magistrati per organizzare il lavoro futuro. Ieri pomeriggio s’è svolto in procura un vertice diretto da Caselli. E al termine di dodici ore di emozioni, impegni e tensioni, il neoprocuratore che non vorrebbe dire niente ammette: «Eh sì, è una bella giornata».

Giovanni Bianconi per La Stampa del 16 gennaio 1993