«C’è la stessa mano dietro le bombe di Milano e Roma. La mafia vuole la secessione»

Giovedì 2 Settembre 1993 esce su La Stampa di Torino una significativa intervista al capo della DIA, Gianni De Gennaro, che per la sua importanza riporto integralmente :

«C’è la stessa mano dietro le bombe di Milano e Roma. La mafia vuole la secessione» Un’unica mano da Palermo a Milano. E’ la mafia che tende alla destabilizzazione. Lo sostiene Gianni De Gennaro, direttore della Dia, la nuova superpolizia antimafia.

Dottor De Gennaro, ha mai sentito parlare di super-mafia? C’è chi ipotizza la nascita di un gruppo dirigente di Cosa Nostra supersegreto che, per motivi si sicurezza interna all’organizzazione, ha scelto la linea «terroristico mafiosa», decide gli attentati ed opera tenendo all’oscuro persino i quadri intermedi.

«Credo che la cosa più importante sia intenderci su cosa vuol dire mafia. Io dico innanzitutto che tra le mafie ce n’è una che si chiama Cosa Nostra siciliana. Ebbene, aggiungo che questa è qualcosa di più rispetto a qualsiasi altra mafia. E’ l’organizzazione più pericolosa, più articolata, più in grado di esprimere una violenza criminale concepita in termini strategici. Ecco, cominciamo a core allora che l’ombra della mafia che si intravede dietro agli attentati non ha forma generica, ma la sagoma di Cosa Nostra siciliana. Questo è essenziale».

Per arrivare alla supermafia?

«Dentro Cosa Nostra siciliana esistono regole di comunicazione come quella di non mettere mai nulla per iscritto e di far circolare le informazioni tra gli affiliati con la tradizione orale. Una serie di circostanze accadute negli ultimi anni – per esempio la defezione di alcuni uomini d’onore passati sotto la protezione dello Stato – può avere indotto i vertici di Cosa Nostra a comunicare in modo ancora più riservato, a utilizzare una serie di accorgimenti per proteggere al massimo la segretezza anche all’interno degli stessi affiliati. Questo è possibile. Non ritengo probabile invece che. tutto ciò abbia potuto.generare una sorta di gruppo nel gruppo, o di gruppo segreto».

E quando, dopo attentati come quelli di Roma o Firenze o Milano, voi tecnici affermate che «non è solo mafia», cosa intendete dire esattamente?

«Dietro questi attentati si può intravedere o ipotizzare la presenza di Cosa Nostra – non della mafia in senso generico – e a fianco altre componenti criminali, di natura anche diversa dalla mafia»

Per esempio?

«Si potrebbe pensare ad alcune schegge dell’eversione di destra. Lo dico solo per esempio, a titolo indicativo e non perché abbiamo idee precise sulla natura di queste altre componenti. La Dia ha parlato di gruppi criminali non ancora conosciuti o identificati, dei quali però si avverte la presenza. Potrebbero essere altri esponenti di organizzazioni mafiose, come calabresi o i napoletani. Chi ci dice che, per operare fuori dalla Sicilia, Cosa Nostra non sia stata costretta a ricorrere al loro aiuto? Chi ci dice che non si sia creata una sinergia, per esempio, con esponenti della criminalità romana? Potrebbero essersi verificate alleanze anche con gruppi stranieri. Perché no? Basti pensare a Schaudin, criminale tedesco, esperto di esplosivi, presente nell’inchiesta, quantomeno come fornitore dei congegni elettronici nell’attentato al treno 904».

Quando la gente sente parlare di centri occulti pensa ad apparati dello Stato deviati, massoneria, servizi segreti, E’ esclusa una simile presenza?

«Gli investigatori prendono sempre in considerazione tutte le ipotesi. Non ci sono allo stato elementi di alcun tipo – per quello che ne so – che possano rivelare la presenza nelle indagini di appartenenti o ex appartenenti o personaggi gravitanti attorno a organizzazioni statuali e istituzionali»

Lei, dottor De Gennaro, ha sempre ipotizzato la nascita di una nuova strategia mafiosa inaugurata con l’assassinio di Salvo Lima, via via affermatasi con le bombe di Capaci e via D’Amelio. Ma in quei casi c’erano degli obiettivi precisi. Falcone e Borsellino nemici giurati di Cosa Nostra. La seconda fase di questa strategia – invece sembra caratterizzata da una forte vocazione terroristica, senza apparenti bersagli definiti. Come spiega tutto ciò?

«L’omicidio dell’on. Salvo Lima non è un attentato, a differenza dei delitti in cui hanno trovato la morte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La Dia ha creduto di individuare l’inizio di una nuova strategia mafiosa proprio nell’eliminazione del parlamentare palermitano e ci è sembrato che tale decisione Cosa Nostra l’abbia presa in un particolare momento: la sentenza della Cassazione che rendeva definitive le condanne del primo maxiprocesso alla mafia, lì i clan hanno cambiato registro, forse si sono convinti che era finito il tempo delle azione mirate tatticamente, come gli assassinii dei giudici Scopelliti e Saetta, uccisi proprio per evitare l’evento tanto temuto e cioè le condanne»

Ma anche a Capaci e via D’Amelio c’erano dei bersagli precisi…

«E’ vero ma abbiamo avuto anche due stragi, cioè è stata scelta l’azione terroristica. Anche per l’attentato di via Fauro siamo in presenza di una vittima designata, Maurizio Costanzo, che per fortuna si è salvata, ma abbiamo comunque una metodologia stragista. Un cambiamento più evidente lo riscontriamo in via dei Georgofili, a Firenze, e il 27 luglio a Roma e a Milano: non c’è più una vittima predeterminata, ma ci siamo imbattuti comunque in un sistema che produce panico. L’aspetto comune di questa strategia mi sembra di coglierlo nel tentativo di generare il terrore. E questo è evidente sin dall’attentato di via D’Amelio, dove è stato eliminato uno dei peggiori nemici di Cosa Nostra, ma con metodi terroristici. Supponiamo che l’obiettivo fosse stato solo quello di abbattere Borsellino per fermare le indagini su Cosa Nostra: il risultato è stato che quella strage ha provocato alla mafia più danni di quanti potevano essere i benefici ipotizzabili con l’eliminazione di un nemico scomodo. E’ logico, quindi, ritenere che l’azione andasse ben oltre l’eliminazione di Borsellino»

Puntava a benefici futuri ?

«Cosa Nostra sta vivendo una delle stagioni più difficili. Le uniche difficoltà, in passato, la mafia le aveva avute da una guerra interna clandestina e velenosa che aveva portato persino allo scioglimento delle famiglie. In questo momento, dunque, Cosa Nostra pone in gioco la propria sopravvivenza. Ha la necessità di ritrovare un suo spazio vitale, che giorno dopo giorno gli viene tolto. Lo Stato non dà dimostrazione di volersi fermare, né di voler rallentare. E per sopravvivere, Cosa Nostra deve indurre le istituzioni a recedere da questa costante, martellante azione di contrasto».

Ed è per questo che Cosa Nostra cambia il suo modo di rapportarsi con l’esterno e dalla scelta del «quieto vivere», dall’antica saggezza, passa ai metodi dei «Narcos» colombiani?

«Sì, è verosimile. Potrebbero essersi convinti che il terrore sia l’unica strada per invertire la tendenza contraria, fidando nell’effetto paura per fiaccare il consenso sociale alla linea governativa. Ma le finalità sono anche di natura più concreta e immediata, per esempio quelle di far modificare l’atteggiamento istituzionale, cambiando alcune norme di recente emanazione. Una di queste, non l’unica, mi pare possa essere l’art. 41 bis che regola le modalità di detenzione per i mafiosi. La carcerazione differenziata mette in crisi Cosa Nostra: il mafioso finalmente non comunica con l’esterno e, soprattutto, perde l’aureola di onnipotente anche tra le sbarre. Non è un caso che tra gli attentati sventati ve ne sia uno che stava per essere attuato contro 14 agenti di custodia di Pianosa. Se Cosa Nostra voleva reagire, è segno che il 41 bis non le piace».

Ma l’Italia non è la Colombia.

«Il paragone ci serve per stare in allerta: è la dimostrazione che un’organizzazione criminale può anche decidere un’aggressione violenta alle istituzioni».

Ma un’organizzazione che, come lei dice, ha capacità di elaborazione strategica e anche, per così dire, di iniziativa politica, non potrebbe scegliere una politica diversa dal terrorismo? In fondo, la mafia siciliana ha una tradizione di convivenza con le aspirazioni separatiste. E ora che dal Nord arriva il vento leghista, la mafia potrebbe cercare di trame vantaggi?

«Non so dire se in termini politici Cosa Nostra possa arrivare ad avere questo tipo di strategie. Io credo, però, che Cosa Nostra abbia la possibilità di interloquire, di interferire, contrattare e contattare componenti criminali o politiche che possano tramare piani destabilizzanti per la nostra democrazia. E’ avvenuto in passato: basta andare con la memoria a fatti processualmente acquisiti come il tentativo di golpe Borghese. A Cosa Nostra fu chiesto l’intervento dei suoi uomini a fianco dei golpisti, in cambio dell’impunità giudiziaria».

Quindi se in Italia nascesse una forza golpista, o comunque una forza che cercasse di minare l’unità nazionale, avrebbe nella mafia un naturale alleato?

«Non ho elementi per affermare che Cosa Nostra potrebbe essere un referente naturale, dico che Cosa Nostra ha già avuto l’occasione di esserlo».

E se invece si facesse più forte la spinta per la secessione – del resto teorizzata apertamente sia da parte leghista sia da nuovi movimenti che si preparano al Sud – .alla prossima campagna elettorale?

«Ecco, mi viene in mente, ancora, il tentativo separatista di Michele Sindona. Gli esempi non mancano. Ripeto, non ho elementi ben precisi, ma posso solo ribadire che la mafia, e ripeto che mi riferisco a Cosa Nostra siciliana, non è solo un’organizzazione criminale. Cosa Nostra è una forza capace di intervenire per modificare anche le realtà sociali e politiche».

Ammetterà che è difficile, dopo aver visto Riina, immaginarlo stratega di una «politica» mafiosa. A proposito, dopo il suo arresto, chi comanda nella mafia?

«Riina è uno degli uomini di Cosa Nostra. Verosimilmente è ancora il capo della commissione provinciale palermitana. Nulla fa pensare che non lo sia più. Ma non è solo lui l’organizzazione: Cosa Nostra è un organismo composito, fatto di più elementi pensanti, non necessariamente in posizioni di vertice. Abbiamo avuto esempi di uomini di Cosa Nostra, apparentemente senza potere, ma in grado di pensare e offrire all’organizzazione un contributo di idee, una specifica competenza. Quando dico questo tutti pensano a Tommaso Buscetta, “soldato semplice ma con tanto prestigio”. Ma non mi riferisco solo a lui, ce ne sono stati altri. Penso per esempio a Ignazio Salvo che non era il capo di Cosa Nostra, forse era appena capodecina, non ricordo. Però era un uomo di cultura, di grande capacità nel suo settore di intervento».

Sono evidenti – se dobbiamo credere alle carte processuali con cui i giudici hanno chiesto le autorizzazioni a procedere per Andreotti, o per Gava – anche contatti ad alto livello. Pensa che ve ne saranno ancora?

«Una precisazione preliminare: le carte processuali non fanno sentenza. Per gli esempi da lei citati esistono solo delle inchieste di cui non sappiamo quale potrà essere l’esito. Che, invece, vi siano stati contatti di Cosa Nostra con rappresentanti delle istituzioni sul suo territorio, questo è possibile e mi pare esistano già accertamenti e riscontri precisi. Mi viene in mente la vicenda di Vito Ciancimino, ma non è la sola. Quelli sono fatti già consacrati da sentenze, non l’avvio di inchieste che possono anche avere un esito negativo. Io, comunque, lascerei ogni risposta alla conclusione delle indagini».

E i pentiti? Amati da giudici ed investigatori, attaccati persino in Parlamento. Che ne pensa della loro utilizzazione?

«Il collaboratore di giustizia è uno strumento processuale. Un osservatore privilegiato che pone la sua esperienza a disposizione dello Stato. Conosce la realtà di Cosa Nostra per averne fatto parte e perciò è collaboratore essenziale. Dall’esterno possono essere conosciute alcune azioni delittuose ma nessun investigatore, da solo, avrebbe mai potuto ricostruire la vita della mafia, i fatti interni dell’organizzazione, la struttura, la gerarchia. Ecco il fatto destabilizzante per Cosa Nostra, essere rimasta scoperta su questo versante. Ma questo non dà al collaboratore nessuna patente di credibilità aprioristica. E’ solo un momento dell’indagine che, solo dopo una serie di altri atti, può assurgere alla dignità di prova. E’ anche vero che può esserci stata una non corretta interpretazione del ruolo del pentito, come è altresì vero che una non completa conoscenza dei fatti, qualche volta, ha portato a giudizi non benevoli verso i collaboratori».

Pensa ad un episodio specifico?

«Mi riferisco a quello che si è letto sui giornali italiani a proposito della presunta non credibilità espressa nei confronti dei testimoni Buscetta, Mannoia e Mutolo, dalla corte americana che giudicava il clan Cambino a New York. Questo non è vero. Era successo, invece, qualcosa di ben diverso e cioè la giuria non aveva potuto emettere un verdetto perché non aveva raggiunto l’unanimità, come prevede il sistema processuale americano. Uno dei giurati era in disaccordo ed è bastato questo per rinviare a nuovo ruolo, con un’altra giuria, la causa. Su quel giurato le autorità statunitensi nutrono sospetti di corruzione».

La Dia, polizia «specializzata» con compiti esclusivi di antimafia, funziona da più di un anno. Lo sforzo governativo è stato notevole, i risultati sono all’altezza? Avete raggiunto il «regime» che vi eravate preposti alla partenza?

«Ho già detto che la risposta istituzionale è stata ferma. Tra gli strumenti prescelti per lottare contro la mafia esiste la Dia, organismo investigativo tecnico monofunzionale, che non viene distolto da altre emergenze che non siano attinenti alla mafia. In questo, devo ammetterlo sinceramente, siamo stati aiutati moltissimo dal ministro dell’Interno, dall’attuale ministro, che ci ha messo nelle condizioni di funzionare al meglio. La Dia si è rivelato uno strumento utile perché è riuscito ad esprimere una specializzazione, una qualificazione dei propri uomini nella tecnica di penetrazione dell’organizzazione mafiosa. Oggi siamo in grado di individuare esponenti mafiosi, latitanti, ed arrivare ad intercettare le loro conversazioni nel covo clandestino, sventando o prevenendo at tentati».

Francesco La Licata per La Stampa, 2 settembre 1993

Cronologia delle rivendicazioni della Falange Armata

27/10/90 – Viene ucciso l’educatore del carcere di Opera, in provincia di Milano, Umberto Mormile. L’attentato viene rivendicato dalla Falange Armata.

04/01/1991 – A Bologna , nel quartiere del Pilastro, la banda della Uno bianca uccide 3 carabinieri. La strage è’ rivendicata dalla Falange Armata. Per la strage viene usato, come in altre azioni rivendicate dalla Falange Armata, un mitra Beretta SC 70 in dotazione soltanto a forze speciali di pronto intervento e impossibili da trovare tanto sul mercato legale come su quello illegale, un’arma uguale sarebbe scomparsa nell’Ottobre del 1990 da una sede del SISMI a Roma.

02/05/1991 – Vengono uccisi in un’armeria a Bologna, Licia Ansaloni, la titolare e il commesso Pietro Capolungo, ex appuntato dei carabinieri. La strage è rivendicata dalla Falange Armata. Il negozio era frequentato da carabinieri e militari, nell’armeria furono acquistati centinaia di proiettili del medesimo tipo di quelli utilizzati per la strage del quartiere Pilastro e per numerose altre azioni rivendicate dalla Falange Armata. Gli autori verranno poi individuati come la banda della “Uno bianca”.

06/01/1992 – Dopo il fallito attentato al treno espresso 388 Lecce-Zurigo, ai centralini dei giornali e degli uffici dell’ Ansa di Napoli e di Bari arrivano alcune rivendicazioni telefoniche. Gli anonimi telefonisti dicono di parlare a nome della Falange Armata e si attribuiscono la responsabilità di questo “attentato incruento”. Un telefonista parla con accento tedesco.

11/03/1992 – A Castellammare di Stabia viene ucciso il consigliere comunale del Pds Sebastiano Corrado. Con una telefonata alla redazione dell’ Ansa di Bologna, un uomo rivendica per conto della Falange Armata l’ omicidio di Corrado, avvenuto solo 3 ore prima.

15/03/1992 – Con una telefonata all’ Ansa di Torino una voce maschile dichiara che la Falange Armata si “assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’ esecuzione dell’ onorevole Lima”. L’on. Salvo Lima era stato ucciso tre giorni prima a Palermo in un agguato mafioso

05/04/1992 – Alle 11.25 del 5 aprile 1992 una telefonata alla sede dell’agenzia Ansa di Bari rivendica l’omicio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli :  «La Falange Armata si assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’azione condotta ieri in Sicilia contro il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli». Il 2 aprile era arrivata alla stessa redazione barese dell’Ansa un’altra telefonata : «È la Falange Armata» disse la voce anonima prima di leggere un comunicato in cui si affermava che «l’attuale momento di tregua è figlio necessario di una convenzione strategica unitaria e di un compromesso politico a termine», promettendo una «legittima rappresaglia» da eseguire «al momento propizio»

23/05/1992 – Giovanni Falcone viene ucciso insieme a sua moglie e alla scorta a Capaci in Sicilia. L’attentato viene portato a termine con una bomba di eccezionale potenza, circa 1.000 chili di esplosivo, che fa saltare decine di metri dell’autostrada Punta Raisi-Palermo. La strage verrà rivendicata anche dalla Falange Armata.

19/07/1992 – Paolo Borsellino, giudice con tendenze politiche di destra del pool antimafia, viene ucciso in Via D’Amelio a Palermo. L’omicidio verrà rivendicato dalla Falange Armata.

14/05/1993 – Alle 21,40 esplode in Via Fauro a Roma, una Fiat Uno imbottita con 120 chili di una miscela esplosiva costituita da tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina. L’esplosione provoca 24 feriti. Anche in questo caso ci sarà una rivendicazione della Falange Armata. L’attentato, probabilmente contro Maurizio Costanzo, provoca 15 feriti.

27/05/1993 – Alle 1,04 in via dei Georgofili a Firenze nei pressi della galleria degli Uffizi esplode un Fiat Fiorino imbottito con 250 chili di una miscela composta da tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina. L’esplosione, che fa crollare la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, provoca 5 morti e 48 feriti, sarà rivendicata dalla Falange Armata. Su vari organi di stampa viene ipotizzata la matrice mafiosa dell’attentato con il coinvolgimento dei servizi segreti e di logge massoniche.

02/06/1993 – A Roma, a Via dei Sabini, a 100 metri da Palazzo Chigi viene scoperta una bomba che viene rivendicata dalla Falange Armata.

16/09/1993 – La Procura della Repubblica di Roma apre un un’inchiesta con un rapporto congiunto di polizia e carabinieri che individua in 16 ufficiali del SISMI i telefonisti che hanno rivendicato le azioni della Falange Armata. L’inchiesta parte da una indagine interna ordinata da Paolo Fulci, capo del CESIS, il comitato di coordinamento dei servizi segreti, fino al ’92. Fulci infatti per scoprire la fondatezza di voci che individuavano come provenienti dagli uffici del SISMI le telefonate della Falange Armata fece predisporre delle intercettazioni telefoniche che avrebbero dato esito positivo. Fulci però aspetterà fino all’estate del ’93 per rendere noto alle autorità di polizia ciò che conosceva già nel 1992.

18/10/1993 – Vengono cambiati i capi dei servizi segreti italiani: Direttore del SISMI è il gen. Cesare Pucci, a comandare il SISDE è chiamato il prefetto Domenico Salazar e al CESIS va il gen. Giuseppe Tavormina. Viene approvata anche una epurazione di ufficiali dei servizi tra i quali, dirà il ministro della Difesa Fabio Fabbri 300 uomini del SISMI, tra i quali si annidano i 16 sospetti telefonisti della Falange Armata, e l’intera settima divisione, quella da cui dipende Gladio. Più che epurati in realtà verranno rispediti alle sedi di provenienza.

21/10/1993 – Attentato a Padova durante la notte contro il Palazzo di Giustizia che viene in parte distrutto. L’attentato viene rivendicato dalla Falange Armata.

26/10/1993 – Viene arrestato a Taormina Carmelo Scalone, educatore penitenziario, uomo di fiducia di Nicolò Amato, è accusato di essere uno dei telefonisti della Falange Armata come risulterebbe da alcune intercettazioni telefoniche. Cade il silenzio invece sui 16 uomini del SISMI precedente individuati.

23/08/1994 –  Milano, 23 ago. (Adnkronos) – La Falange Armata ha rivendicato oggi pomeriggio con una telefonata alla redazione milanese dell’Adnkronos ”la paternita’ politica e la responsabilita”’ della morte di Sergio Castellari, l’ex direttore generale delle Partecipazioni statali, il cui cadavere venne ritrovato il 25 febbraio 1993 su una collinetta a poche centinaia di metri dalla sua villa di Sacrofano.

”La Falange si assume la paternita’ politica e la responsabilita’ dell’operazione Sergio Castellari”. Queste le parole della brevissima rivendicazione, giunta alle 18,25 circa, pronunciate da una voce maschile, apparentemente di un uomo in eta’ abbastanza avanzata, con una insolita accentuazione, come di chi si esprima correntemente in francese.

25/11/1994 – Nell’ambito dell’inchiesta sulla banda della Uno bianca è stato arrestato un altro poliziotto, altri due sono sospettati di avere chiuso gli occhi sull’attività dei colleghi, un altro ancora a Pescara ha ricevuto un avviso di garanzia. I magistrati bolognesi hanno inoltre trasmesso gli atti dell’inchiesta ai colleghi romani che indagano sulla Falange Armata. Il poliziotto arrestato si chiama Pietro Gugliotta e prestava servizio alla sala operativa delle volanti della questura di Bologna.

27/11/1994 – Eva Mikula, arrestata con Fabio Savi ha dichiarato di aver conosciuto il componente della banda della Uno bianca nel gennaio del ’92 a Budapest nel bar dove lavorava come cameriera. A presentarglielo era stato un amico di Budapest che aveva sentito parlare Fabio Savi di mercurio rosso. Una perizia, inoltre, ha constatato che una delle pistole 357 magnum sequestrata ai componenti della banda è la stessa che nell’aprile del ’90 uccise l’educatore carcerario di Opera Alberto Mormile. Il senatore Libero Gualtieri racconta che l’ex segretario del CESIS, Francesco Paolo Fulci redasse un elenco di 16 nomi interni alle “forze dell’ordine” come sospetti di essere implicati nella vicenda della Falange Armata che tale sigla avrebbe avuto lo scopo di disinformare e intimidire per allontanare i sospetti su Gladio.

01/12/1994 – Sui terminali dell’agenzia stampa ADN-Kronos compare un messaggio a firma della Falange Armata che nega collegamenti con la banda della Uno bianca. Si tratta di un accesso non autorizzato alla banca dati dell’agenzia.

20/04/1995 – L’ex giudice Di Pietro, in qualità di consulente della Commissione Stragi, ha consegnato le sue conclusioni sull’indagine svolta sulla banda della Uno bianca. Di Pietro dice: non esistono collusioni e coperture dei servizi segreti e non c’è alcuna connessione con la Falange Armata con la banda Savi. Sempre secondo Di Pietro non esisterebbero legami neanche fra la banda di poliziotti della Uno bianca e la criminalità organizzata. Un giudizio molto affrettato, che non coincide con molti riscontri derivanti dalle indagini, che comunque vanno a rilento, e che ha dato luogo alle reazioni nervose della Procura di Bologna. Anche Di Pietro comunque è un ex poliziotto che ha prestato servizio nel commissariato vicino all'”autoparco della mafia” di Milano e non si è accorto di nulla, c’è il rischio che anche stavolta non abbia visto ciò che è evidente.

30/09/1995 – La Falange Armata ha lasciato dei messaggi nei computer collegati a Internet della Banca d’Italia, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, della Italsempione e del CERPL di Massa Carrara, Padova, Roma e Ferrara. Nel messaggio lasciato si legge: “Voi avete le reti, le informazioni, la tecnologia. Noi abbiamo voi, le vostre cose, le reti. Rivoluzione sì, ma nuova, come non l’avreste mai immaginata… Guardatevi intorno … i vostri nemici saranno i monitor”. In un comunicato arrivato ai giornali firmato Falange Armata viene rivendicata l’azione: “Abbiamo preso il totale controllo di alcuni sistemi informatici… Abbiamo cancellato le parole chiave per accedere agli elaboratori e abbiamo inserito una nostra password… Ci dite che l’informazione è il potere, che essa viaggia sulle reti. Noi ora abbiamo le reti, abbiamo l’informazione, abbiamo il potere”.

Fonte principale : Archivio ‘900 [Documento aggiornato in data 30 giugno 2013]

Chelazzi e quell’audizione mai finita

«RINGRAZIO la Commissione per aver disposto questa audizione. Mi fa infatti piacere… dopo essere stato per 185 udienze in un anno e mezzo davanti alla Corte d’ assise di Firenze a svolgere il primo grado davanti ai giudici che, con fascia e senza fascia, rappresentano il popolo italiano, poter illustrare a chi rappresenta il popolo italiano in quest’ Aula qualche cosa che in quella sede giudiziaria non aveva ragione di ingresso». E’ martedì 2 luglio 2002. Il magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi è stato convocato dalla Commissione parlamentare antimafia insieme con il procuratore nazionale Piero Vigna per parlare delle stragi del 1993. «Ho alle spalle nove anni di full immersion nella vicenda delle stragi», premette, avvertendo che le indagini non si sono fermate e che «è ancora in piedi l’ ultimo dei procedimenti, che va alla ricerca – non in virtù di un teorema – di responsabilità concorrenti a quelle di Cosa Nostra». «Poter mettere quello che so, quello che ho capito e niente più che questo, a disposizione di un organo importante come una Commissione parlamentare d’ inchiesta è per me motivo di soddisfazione, ma anche di gratitudine». «Vorremmo che la sua relazione fosse la più ampia possibile», dichiara il presidente della Commissione antimafia Roberto Centaro, Forza Italia, attuale relatore della legge-bavaglio sulle intercettazioni. Sfortunatamente quel 2 luglio 2002 incombono votazioni in aula e la Commissione può concedere al magistrato un solo quarto d’ ora. Chelazzi deve limitarsi a illustrare «un tracciato», «una sorta di premessa metodologica». «Per quanto riguarda il momento deliberativo interno, il momento organizzativo, il momento preparatorio e quello esecutivo, per tutto quello che concerne Cosa Nostra ritengo che le responsabilità siano state individuate una per una… Ora però l’ impegno principale, che non ho difficoltà a dire non ha assicurato risultati a carattere definitivo a tutt’ oggi, è stabilire il perché di queste stragi». Ai parlamentari Chelazzi ricorda che gli attentati sono stati sette e hanno occupato undici mesi: «Credo che non ci siano precedenti nella storia dello Stato unitario di sette fatti di strage in undici mesi». Il presidente Ciampi ha ricordato giorni fa quella sequenza di orrori: l’ attentato di via Fauro a Roma contro Maurizio Costanzo, l’ autobomba in via de’ Georgofili a Firenze, la notte degli attentati a Milano in via Palestro e a Roma contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, l’ autobomba all’ Olimpico che avrebbe dovuto fare strage di carabinieri e non scoppiò, il fallito attentato a Formello contro il pentito Totuccio Contorno. Cosa Nostra aveva una finalità eversiva, voleva costringere lo Stato a recedere dalla linea della fermezza, sottolinea Chelazzi all’ Antimafia. «Tuttavia – aggiunge – bisogna andare più in profondità per capire com’ è che questa finalità ha fatto sì che si colpissero determinati obiettivi e non altri; che si agisse non in Sicilia ma fuori dalla Sicilia; che si alternassero obiettivi notevolmente disomogenei… E c’ è da spiegare la ragione per la quale tra un fatto e l’ altro intercorrono in alcuni casi pochi giorni, in altri un periodo di tempo lungo». Chelazzi non lo dice, ma sembra alludere a una possibile trattativa. Si chiede ancora perché non sia stato replicato il fallito attentato dello Stadio Olimpico e, «più in generale, perché le stragi ad un certo momento finiscono». Il magistrato ritiene fondamentale il ruolo della commissione parlamentare per la comprensione delle «ricadute sulla società civile di azioni criminali così gravi». E conclude: «Quindi, se l’ intendimento della Commissione è conoscere qualcosa dei sette fatti di strage e delle ipotesi avanzate per individuare le responsabilità, credo sia indispensabile che io provi… ad allargare gli scenari anche sugli antefatti e su quelle che chiamo le sequenze concorrenti parallele». Tempo scaduto. «La ringrazio», si congeda il presidente Centaro: «Il quadro è interessantissimo e quindi mi raffiguro che comporterà audizioni molto lunghe e approfondite». E’ un arrivederci, dunque. Ma nei mesi successivi la Commissione non trova il tempo per gli approfondimenti. Gabriele Chelazzi morirà d’ improvviso a 59 anni il 17 aprile 2003, senza essere più stato convocato dai rappresentanti del popolo.

Franca Selvatici per La Repubblica, 2 giugno 2010

Audizione del P.M. Gabriele Chelazzi davanti alla Commissione Antimafia, 2 luglio 2002

«Il complotto viene dall’Est, Riina non ne avrebbe le capacità»

Intervista a Calogero Mannino

ROMA. «E adesso non mi vengano a dire che questa bomba l’ha messa la mafia di Toto Riina. Anzi, a questo punto dubito anche sulla matrice mafiosa degli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino». Seduto su una poltrona di Montecitorio, Calogero Mannino, ex-ministro dell’Agricoltura e primo attore della DC siciliana, si lascia andare ad un serie di congetture sulla bomba di Firenze. Sarà l’emozione per quello che è avvenuto, o, il fatto, di aver tenuto in corpo per tanti mesi questo sfogo, ma Mannino parla senza pausa e dalla sua bocca, come da un fiume in piena, esce di tutto.

Lei ha davvero dubbi sul fatto che non c’entri la mafia?

«Io dietro alla bomba di Firenze vedo ben altro. E, se non sbaglio, tra le minacce ricevute all’epoca da Falcone c’era anche quella della falange armata. La verità è che gli assassinii che ci sono stati in Sicilia hanno messo in ginocchio la DC o il sistema di potere andreottiano. E non è cosa da poco conto: in Italia quello che è avvenuto può essere paragonato alla caduta del muro nei Paesi comunisti. Quindi chi l’ha fatto deve avere degli obiettivi ben più grandi di quelli della mafia. Solo che dopo aver fatto fuori i partiti di governo, nessuno si è fatto avanti per prenderne il posto».

E allora?

«Proprio per questo si possono fare solo delle ipotesi su chi muove i fili dell’intera vicenda. Può esserci in atto, ad esempio, un’utilizzazione di servizi segretti deviati, ad opera di altri Paesi. O, ancora, bisogna vedere chi si muove dietro alla Serbia. Ed ancora, si dice che in Russia i comunisti si stanno riorganizzando e la stessa cosa sta facendo l’esercito. Infine bisogna fare un discorso un po’ più complesso sulla mafia…».

Si spieghi.

«Ma lei crede davvero che un personaggio come Toto Riina possa stare dietro a tutto questo? Suvvia, al massimo quello può fare ridere o, come succede a me, può far girare le scatole. La verità, secondo me, è che esiste un apparato militare molto efficiente e, poi, una mente politico-finanziaria, che non si trova certo in Italia. E questi due livelli si incontrano raramente: o meglio, nei momenti importanti la mente finanziaria ordina all’apparato militare quello che deve fare».

Ma lei crede davvero a queste sue ipotesi, non le paiono un po’ azzardate?

«Senta, le faccio una domanda: perché Giuliano i carabinieri lo hanno trovato morto, mentre Riina è stato trovato vivo? La verità è che Riina si è sganciato. Fatto il lavoro che gli era stato commissionato si è sganciato».

Ma quale interesse potrebbe avere quell’«entità» che, secondo lei, starebbe dietro a tutto questo?

«Non vogliono avere a che fare con un governo degno di questo nome. Quello attuale è come se non ci fosse. Sono passate due settimane e vedete, non esiste. E non avere a che fare con un governo significa tante cose: ad esempio da la possibilità di comprare i beni dello Stato a pochi soldi. E se, poi, si arrivasse a provocare una divisione dell’Italia in due, qualcuno potrebbe ricavarne altri vantaggi. Potrebbe, ad esempio, disporre senza problemi, di basi militari dell’Italia meridionale di grande importanza strategica, come Fontanarossa e Comiso. Sì, potrebbe usarle come vuole, a proprio piacimento, senza rischiare incidenti diplomatici con il governo italiano come è avvenuto a Sigonella. Le mie, comunque, sono solo ipotesi che partono, però, da una convinzione».

Quale?

«Tutto quello che sta avvenendo pone una questione: qualcuno insidia la nostra sovranità nazionale».

Secondo lei siamo a questo punto?

«Ci siamo e nessuno se ne rende conto. Ad esempio, i giudici hanno fatto il loro lavoro, diciamo che la loro è stata un’operazione chirurgica, ma adesso dovrebbero lasciare di nuovo il posto alla politica. E lo stesso problema dovrebbero porsi anche i pidiessini, insieme a noi devono porsi il problema di salvare il Paese. Fatto questo potrebbero governare loro».

Ma senta non è che le sue supposizioni nascono solo dalla voglia di far dimenticare quello che è avvenuto in questi mesi? Insomma, un tentativo di azzerare il tutto nel nome dell’emergenza?

«Non scherziamo. Io la politica la lascio. Guardi io ho già fatto un patto con mia moglie: io lascio, ma lei deve accettare di lasciare la Sicilia. Io non posso rimanere lì, perché so quello che ho fatto contro la mafia. Voglio andarmene, non all’estero, magari a Roma».

Augusto Minzolini per La Stampa, 28 maggio 1993

Ricatti di mafia – Gli attentati del ’93 furono fermati quando lo Stato tolse all’improvviso il carcere duro a 140 boss

Adesso c’è la prova. La prova della trattativa tra Stato e mafia iniziata nei primi anni Novanta. E a trovarla, nascosta nei documenti della Direzione amministrativa penitenziaria (Dap), è stato Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino morto d’infarto il 17 aprile scorso, appena due mesi prima che scadessero i termini della sua quarta indagine sui mandanti a volto coperto delle bombe di Cosa Nostra dell’estate 1993.

Secondo quanto “L’espresso” è in grado di rivelare, Chelazzi aveva acquisito al Dap la copia dei fascicoli relativi a 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ai quali, tra il 4 e il 6 novembre di dieci anni fa, il ministero di Grazia e Giustizia revocò improvvisamente e imprevedibilmente il regime – del carcere duro, cosiddetto 41 bis.
Chelazzi si era reso conto dell’importanza di quei documenti non appena era riuscito a stendere una cronologia completa di tutti gli attentati (falliti e portati a termine) da Cosa Nostra. La svolta nell’inchiesta, che vede indagato solo l’ex senatore Dc Salvatore Inzerillo, era arrivata ragionando sulla storia di un’autobomba che non è mai esplosa: quella piazzata a Roma a poche centinaia di metri dallo stadio Olimpico domenica 31 ottobre 1993.

Quel giorno un commando di sole quattro persone posteggiò in via dei Gladiatori una Lancia Thema rubata carica di chiodi e di tritolo che avrebbe dovuto saltare in aria al termine di Lazio-Udinese al passaggio di due autobus dei carabinieri. L’obiettivo dichiarato era quello di fare più vittime possibile tra i militari. Ma la bomba radiocomandata non esplose, e la Thema rimase lì, posteggiata a lungo prima di essere rimossa. Gli investigatori per anni si sono chiesti perché l’attentato non fu portato a termine la domenica successiva, il 7 novembre, quando si giocava Roma-Foggia.

Poi, con la scoperta della revoca del 41 bis ai mafiosi dell’Ucciardone decisa il 4 novembre, hanno cominciato a capire. Non per niente tutti gli ultimi atti d’indagine di Chelazzi sono stati dedicati al fronte delle carceri. Il pm, prima di morire, aveva tra gli altri ascoltato come testimoni l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, dimissionario nel febbraio del ’93, perché coinvolto da Silvano Larini e Licio Gelli nello scandalo del conto Protezione; l’ex direttore del Dap Nicolò Amato (sostituito il 4 giugno ’93 ); i familiari e i collaboratori di Francesco Di Maggio, lo scomparso pm milanese che nell’estate ’93 era diventato vicedirettore del Dap; Livia Pomodoro, allora dirigente del ministero della Giustizia; l’attuale direttore del Sisde, il generale Mario Mori, i cappellani delle carceri di Pianosa e Porto Azzurro e il loro ispettore generale, monsignor Giorgio Caniato.

Punto di partenza degli interrogatori, un assunto ormai diventato verità processuale: le stragi del ’93 furono decise principalmente per tentare di costringere lo Stato a revocare il 41 bis, introdotto da Martelli il 19 luglio del 1992, subito dopo l’attentato a Paolo Borsellino.

In quei giorni Cosa Nostra, di fronte agli uomini d’onore costretti nelle supercarceri è come una belva ferita. Non sa che pesci pigliare. Poi, durante l’estate, l’idea. Un informatore del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri, Paolo Bellini, spiega ai mafiosi che tradizionalmente lo Stato, quando si devono recuperare opere d’arte rubate, è disposto a trattare con la malavita e a concedere sconti di pena. Così nel novembre del ’92 un gruppo di mafiosi catanesi (uno dei quali, Salvatore Facella, recentemente pentito) lascia un proiettile di artiglieria inesploso nel giardino di Boboli a Firenze. Poi, come raccontano i collaboratori, sulla strada del ritorno uno di loro telefona all’Ansa per rivendicare l’azione. Per telefono protesta per le condizioni dei carcerati a Pianosa e all’Asinara. Ma lo fa in modo concitato, e la rivendicazione non viene ripresa.

Nelle carceri intanto cresce il malumore. Cosa Nostra progetta di uccidere un agente di custodia per ogni paese siciliano. Ma i detenuti, per timore di ritorsioni, dicono no. Il 27 aprile, oltretutto, un blitz fa saltare anche il progetto di attentato contro 12 agenti di Pianosa. L’8 maggio il Papa arriva in visita in Sicilia. E, fatto senza precedenti, tuona contro Cosa Nostra lanciando un anatema agli uomini d’onore. La mafia la prende malissimo. Vuole reagire. Comincia ad accarezzare l’idea di colpire le chiese. Intanto però il 14 maggio a Roma un’autobomba esplode al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo, che in televisione aveva osato augurare il cancro ai boss responsabili degli omicidi Falcone e Borsellino.

Il 27 maggio viene fatta esplodere un’autobomba a Firenze (cinque morti) in via dei Georgofili. È un segnale per aprire uno spiraglio di trattativa sui detenuti di Pianosa (in Toscana). Nelle carceri la tensione è sempre più alta. E i primi ad accorgersene sono i cappellani, in difficoltà per la dura presa di posizione del Papa. Monsignor Caniato, come “L’espresso” è in grado di rivelare, racconterà a Chelazzi che da loro arriva ufficiosamente la richiesta di sostituire Nicolò Amato, il direttore del Dap. Amato, che pure è un garantista doc e che già a marzo aveva chiesto al ministro Giovanni Conso di sostituire il 41 bis con forme di registrazione dei colloqui tra famigliari e detenuti, salta il 4 giugno. A Cosa Nostra non basta: Di Maggio, il nuovo vicedirettore, ha il pugno di ferro.

Il 20 luglio, oltretutto, il 41 bis viene prorogato e, fatto scoperto casualmente da Chelazzi, il Sisde (che ha buone fonti) lancia un nuovo allarme bombe. Due giorni dopo a Palermo si consegna ai carabinieri il boss Salvatore Cancemi. II capofamiglia di Porta Nuova, almeno ufficialmente, non parla di nuove stragi. Spiega solo che Provenzano ha in progetto di rapire Ultimo, l’ufficiale che il 15 gennaio ha arrestato Totò Riina. Il 27 luglio, comunque, il vicecapo del Ros Mario Mori si incontra con Di Maggio: sulla sua agenda, acquisita da Chelazzi, compare un appunto: «Di Maggio x 41 bis». Mori, interrogato l’11 aprile 2003, ha sostenuto di essere stato convocato da Di Maggio. Fatto sta che la sera del 27 esplodono un’auto a Milano (cinque morti) e due a Roma, nelle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano.

L’auto di Milano, come scopre Chelazzi, non ha come obiettivo il Padiglione di arte contemporanea, dove esplode, ma il vicino Palazzo dei giornali. Solo un problema alla miccia ha costretto il commando ad abbandonarla davanti al Pac in via Palestro. E in una lettera anonima allora inviata ai quotidiani la mafia scrive: «La prossima volta faremo centinaia di vittime».

Siamo ormai sul finire dell’estate. li 12 settembre ’93 un parlamentare Dc, Alberto Alessi, che da lì a tre mesi organizzerà le prime cellule del partito di Berlusconi in Sicilia, entra all’Ucciardone e minaccia di non uscirne più fino all’abrogazione del 41 bis. Poi, dopo cinque ore, ottenuta la garanzia che il ministero esaminerà la materia, molla la presa. Quattro giorni dopo Cosa Nostra uccide padre Pino Puglisi. È un nuovo segnale alla Chiesa, al quale dovrebbe seguire, il 31 ottobre, quello ai carabinieri. Ma all’Olimpico l’automobile non esplode. Oggi, grazie a Gabriele Chelazzi e all’inchiesta su quei 41 bis revocati all’improvviso, si comincia a capire perché.

Peter Gomez e Giuseppe Lo Bianco per L’Espresso, 13 Giugno 2003

Le lobby finanziarie ordinarono le stragi

FIRENZE – Mandanti a viso coperto. Così li definisce il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna. Sono gli uomini che potrebbero aver suggerito a Cosa Nostra la strategia di attacco allo Stato e gli obiettivi da colpire. Vigna parla di “lobby finanziarie”, “lobby segrete, soprattutto”. “Se sapessi i nomi avrei già chiesto gli ordini di custodia”, chiarisce. Ma spiega che la Direzione distrettuale antimafia di Firenze – che indaga su tutte le stragi che nel corso del 1993 hanno insanguinato Roma, Firenze e Milano – ha aperto un fascicolo parallelo a quello sugli attentati: un fascicolo – appunto – sui “mandanti a viso coperto”. La decisione è stata presa d’ intesa con la procura di Caltanissetta che indaga sugli attentati a Falcone e Borsellino. Alla vigilia del secondo anniversario della strage di via de’ Georgofili del 27 maggio 1993 – che provocò cinque morti, fra cui due bambine, 28 feriti, danni gravissimi alla Galleria degli Uffizi e agli edifici vicini – il procuratore di Firenze ha fatto il punto dell’ inchiesta, condotta insieme con i sostituti Gabriele Chelazzi e Giuseppe Nicolosi. Due trafficanti di droga, Antonio Scarano e Aldo Frabetti, sono in carcere, accusati di strage. Ricercati i boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. In carcere per detenzione di esplosivi i romani Alfredo Bizzoni e Bruno Santarelli. Oltre 50 persone indagate per strage. Che Cosa Nostra abbia organizzato gli attentati del ‘ 93 per ricattare lo Stato e costringerlo a recedere dal rigore nella lotta alla mafia è un dato certo, confermato da numerosi pentiti. Ma la strategia del terrore poteva far comodo anche a realtà criminali esterne, contigue e conniventi con Cosa Nostra. Che – secondo Vigna – è ormai un “sistema criminale integrato”: e cioè una organizzazione che interagisce con altre realtà criminali esterne. Secondo il pentito Totò Cancemi, prima di varare la strategia delle stragi Totò Riina si incontrò “con persone importanti”. E poichè Riina era al vertice di Cosa Nostra, Cancemi ne dedusse che si trattava di persone esterne all’ organizzazione.

La Repubblica, 25 maggio 1995

Gli obiettivi di Cosa Nostra dal ’91 a oggi

Cosa nostra, a partire dal 1991-92, si propose tre obiettivi: eliminare fisicamente gli avversari e gli “amici” ormai inservibili, tutti politici colpevoli di non aver rispettato i patti; giungere, a suon di bombe, all’ abrogazione dell’ ergastolo, della normativa sui collaboratori di giustizia, sul sequestro dei beni e sul regime carcerario di cui all’ articolo 41 bis dell’ ordinamento penitenziario, attraverso una trattativa con lo Stato; propiziare un nuovo assetto politico-istituzionale del Paese, più sicuro e affidabile per l’ organizzazione, battendo diverse strade: creazione di un movimento indipendentista e/o appoggio a nascenti realtà politiche. Con queste prospettive sviluppò rapporti con referenti istituzionali nel quadro di un progetto criminale aperto che attuò nel biennio 1992-93. Una strategia unitaria che ha visto l’ organizzazione impegnata anche fuori dal territorio siciliano e verso obiettivi inediti per il suo passato: musei e chiese, oltre a politici, magistrati, poliziotti, ufficiali dei carabinieri, giornalisti, collaboratori di giustizia. Furono perpetrati cinque fra attentati e omicidi nel 1992 (le stragi di Capaci e di via D’ Amelio, gli omicidi di Salvo Lima, di Ignazio Salvo e dell’ ispettore Giovanni Lizzo), quattro nel 1993 e un attentato nel 1994 (a Formello, diretto a colpire Salvatore Contorno). I processi celebrati e le indagini progressivamente espletate hanno fornito elementi per ritenere sussistente una forte interdipendenza tra quegli eventi delittuosi.
L’ idea di colpire il patrimonio monumentale dell’ Italia germoglia e si attua sin dal 1992. Basti pensare alla collocazione della bomba da mortaio, contenente esplosivo ad alto potenziale, nei giardini di Boboli, annessi a Palazzo Pitti, a Firenze nell’ ottobre ’92. La decisione di colpire il giornalista Maurizio Costanzo risaliva agli inizi del ’92, anche se l’ esecuzione dell’ attentato fu rimandata al maggio del ’93. I delitti vennero rivendicati nella quasi totalità dalla sedicente “Falange armata”. L’ accelerazione dell’ esecuzione della strage di via Mariano D’ Amelio, il progetto di attentato nei confronti di Pietro Grasso, l’ arresto di Salvatore Riina con le sue singolari anomalie, la riunione operativa del primo aprile ’93 (in un villino di proprietà di Vasile, a Santa Flavia, ove il comando generale di Cosa nostra decideva il via libera alla nuova stagione delle stragi) scaturiscono, dipendono o si accostano alla genesi e al progredire delle trattative o ipotesi di trattative frattanto avviate dagli appartenenti all’ organizzazione con esponenti e rappresentanti delle istituzioni, nel quadro di iniziative politiche. Lo stesso ministro dell’ Interno, il 7 settembre 1992, faceva riferimento in sede parlamentare a segnalazioni di diverse fonti circa ulteriori iniziative terroristiche clamorose. Il divenire criminale ha prodotto un’ azione eversiva e terroristica che oggettivamente ha contribuito a disarcionare le classi dirigenti e creato le condizioni per l’ affermazione di forze politiche nuove capaci di riportare stabilità e sicurezza tra i cittadini. Alcuni momenti nevralgici di quella stagione di sangue rimangono, nonostante le indagini e i processi celebrati, ancora oscuri. Si pensi al ritrovamento di un’ auto piena di esplosivo a circa cento metri da palazzo Chigi, in via dei Sabini, nelle vicinanze di piazza Colonna, proprio nella giornata della festa della Repubblica, azione rivendicata dalla Falange armata, mai entrata nei racconti dei collaboratori di giustizia. Sono stati registrati accadimenti inquietanti correlativamente all’ esecuzione di vari delitti rientranti nel programma cospirativo. I riferimenti sono al misterioso guasto, apparentemente senza spiegazione, al centralino di Palazzo Chigi (ove si era insediato il premier Carlo Azeglio Ciampi nel maggio di quell’ anno) dalle 0,22 alle 3,02 del 28 luglio ’93, allorquando i telefoni della presidenza del Consiglio rimasero isolati, in coincidenza con l’ intervallo di cinquanta minuti in cui avvennero le due esplosioni a Roma (a piazza San Giovanni in Laterano e dinanzi alla chiesa di San Giorgio al Velabro) e una a Milano (di fronte al Padiglione di arte contemporanea). Quest’ ultima – è stato raccontato – fu messa in atto per fare un favore a persone che si stavano interessando per far uscire di prigione i mafiosi. Poco chiara è rimasta la sparizione dell’ agenda dell’ Arma dei Carabinieri che Paolo Borsellino portava sempre con sé, nonché le causali e le modalità di cancellazione dell’ agenda elettronica (che, dalle annotazioni rilevate, può farsi risalire a un periodo immediatamente antecedente o successivo alla data della strage) e il mancato rinvenimento della “ram card” del databank Casio nella disponibilità di Giovanni Falcone. Oscuro risulta l’ interesse di appartenenti alla massoneria al trasferimento di Giovanni Falcone dagli uffici giudiziari palermitani; il rinvenimento di un biglietto, ove erano riportati un numero di telefono e una sede del Sisde nella zona teatro dell’ agguato di Capaci (dati in qualche modo riaffiorati nelle investigazione sulla strage di via Fauro); il tardivo affiorare di ricordi su incontri intercorsi nel giugno ’92 tra Borsellino e ufficiali del Ros. La singolare coincidenza temporale tra l’ arrivo in Sicilia di Paolo Bellini e la sua presa di contatto con Antonino Gioè, nel mentre era impegnato nella fase preparatoria della strage del 23 maggio ’92. Alcuni quesiti sono rimasti senza risposta. Come mai l’ attentato fallito a Maurizio Costanzo, in via Fauro, fu attuato proprio il 14 maggio 1993, due giorni dopo l’ insediamento del governo Ciampi, quale esordio dell’ ondata stragista di quell’ anno? Vi furono ragioni ulteriori, che indussero a colpire il giornalista, rispetto alla vendetta per le trasmissioni tenute contro la mafia? Per quale motivo, poi, l’ attentato programmato per domenica 31 ottobre ’93, con autobomba parcheggiata in via dei Gladiatori a Roma, a due passi dallo stadio Olimpico (fallito a causa del mancato funzionamento del congegno di attivazione) non venne più rimesso in cantiere sino all’ inizio del ’94, allorché venne fatto ritrovare l’ esplosivo a Capena? Come mai l’ offensiva stragista si fermò, senza che l’ obiettivo dell’ abolizione del regime carcerario di cui all’ articolo 41 bis dell’ ordinamento penitenziario, indicato dai collaboratori di giustizia che hanno contribuito a ricostruire parte delle dinamiche esecutive e deliberative degli attentati del 1993, non fosse stato raggiunto? Quale furono gli ulteriori scopi perseguiti dai vertici dell’ organizzazione e con chi furono condivisi? In ultima analisi, occorre chiedersi quale fu la prospettiva connessa all’ ideazione dell’ attacco frontale allo Stato da parte dei vertici di Cosa nostra. Hanno agito d’ intesa sin dall’ inizio dell’ elaborazione e dell’ attuazione del programma, o con la speranza di trovare consensi da parte di altri soggetti in corso d’ opera, aspettativa alimentata dai segnali giunti da ambienti istituzionali con i quali erano entrati in contatto? Qual è la reale dinamica e il significato ultimo delle trattative di cui hanno riferito collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Antonino Giuffrè, membri della commissione provinciale di Palermo? Si tratta di interrogativi la cui risposta richiede un rinnovato impegno investigativo unitario, che denotano una carenza conoscitiva non accettabile in un Paese democratico e che non possono essere lasciati al lavoro degli storici. La nostra Nazione, che si scandalizza per l’ ammissione alla detenzione domiciliare del pentito Enzo Salvatore Brusca e che rimane indifferente alla concessione di permessi premio al detenuto modello Leonardo Greco, è matura e pronta per la verità e a raccogliere seriamente l’ invito del capo dello Stato a fare luce su tutto?

Luca Tescaroli per La Repubblica, 1 giugno 2003

La linea della fermezza al ricatto mafioso

UNO Stato intimorito e costretto a trattare facendo concessioni importanti. Un inserimento con propri referenti e con propri obiettivi nel processo di rinnovamento politico. E’ questo l’ orizzonte “golpista” verso il quale Cosa Nostra si sta muovendo, con la sua strategia delle stragi e insieme ad altri “centri di potere”, secondo l’ analisi contenuta nella relazione della Direzione investigativa antimafia e nell’ intervista a “La Stampa” del suo direttore, Gianni De Gennaro. Un’ analisi che finalmente esce dal fumo delle dichiarazioni improvvisate rese subito dopo gli attentati di Firenze, Roma e Milano da politici e responsabili dell’ ordine pubblico e che comporta alcune riflessioni gravi sul momento che stiamo vivendo. Da una parte infatti non sfugge il senso di una sorta di “messaggio” ai mafiosi contenuto nelle parole di De Gennaro: siamo in grado di conoscere le vostre mosse e quindi di prevenire le stragi attraverso le intercettazioni. Dunque anche: sappiamo chi siete. Affermazioni che fanno supporre che le indagini abbiano imboccato una strada molto promettente. D’ altro canto però non resta che prendere atto che per la seconda volta nella storia del dopoguerra, dopo quello delle Brigate rosse le istituzioni si trovano a dover rispondere a un ricatto. Cosa nostra chiede di essere considerata una controparte, una realtà con la quale lo Stato deve trattare in cambio della sicurezza dei cittadini e della vita di magistrati e inquirenti. La risposta di quegli stessi che hanno riconosciuto l’ esistenza del “pactum sceleris” e i suoi obiettivi è l’ invito a stringersi attorno a un nuovo fronte della fermezza. “Guai se lo Stato desse un segno di cedimento, di voler trattare” dice De Gennaro. E il presidente della commissione antimafia, Luciano Violante, sostiene che a questa strategia bisogna rispondere “con la massima determinazione, nel senso che dobbiamo mettere sempre più in difficoltà gli strateghi di Cosa nostra. Ogni tentativo di mediazione gli andrà male”. Resta da capire un po’ più da vicino cos’ è che la mafia e gli “altri centri di potere” vogliono esattamente ottenere da una trattativa con lo Stato e quali sono i referenti politici su cui pensano di poter contare per fiaccare il fronte della fermezza. Cosa vogliono? Prima di tutto alcune cose concrete. La revoca, ad esempio, di un articolo del codice che riguarda l’ ordinamento penitenziario: il 41 bis, (contro il quale ieri la Corte europea di giustizia ha ritenuto proponibile il ricorso) che dà al ministro di Grazia e Giustizia, quando ricorrano situazioni gravi “di ordine pubblico e sicurezza pubblica”, il potere di stabilire per il detenuto particolari norme di carcerazione, come l’ isolamento. E nell’ isolamento i boss di Cosa nostra hanno spesso dovuto rinunciare al controllo dei traffici e alla sicurezza del comando. Vogliono che i processi di mafia non si facciano: e per questo è necessario che si vada al più presto verso la concentrazione dei processi di mafia nelle sedi delle procure distrettuali. Vogliono che siano abolite le confische dei loro beni. In sostanza, spiega De Gennaro, Cosa nostra chiede che le istituzioni, attraverso una vera e propria trattativa, cambino l’ atteggiamento nei confronti della organizzazione, tornino a quella tacita convivenza e esplicita complicità che caratterizzò i rapporti tra mafia e politica in tempi non molto lontani. Da qui anche l’ interesse per forme di separatismo all’ interno delle quali sarebbero pensabili leggi meno dure, magari anche le Cassazioni regionali. Cosa nostra ha bisogno di dimostrare sul mercato internazionale che i colpi subiti non sono riusciti a strappare il primato mondiale del traffico dell’ eroina. Il problema che la Dia non può risolvere, almeno per ora, è quello dei referenti politici. Qui i pareri sono discordi: c’ è chi è sicuro che la mafia abbia già sostituito i vari Lima e i Salvo, con forze politiche o con singoli personaggi già all’ opera. Chi invece sospetta che la ricerca sia aperta : “Io non credo che ci siano forze o individui in grado di assicurare qualcosa. Temo piuttosto che i vecchi alleati cercheranno di tenere le fila…” dice Violante. Qualcosa di antico, dunque. E qui la relazione di De Gennaro offre spunti interessanti, anche su quelli che la Dia definisce “ambienti massonici a rischio” per i quali ci sono “prove di collusione” con Cosa nostra. Cita ambienti e persone che hanno cercato di intorbidire le indagini e il lavoro antimafia. Denuncia un campagna di delegittimazione di cui si è fatta portavoce la agenzia giornalistica “Repubblica”, “giunta addirittura ad ipotizzare l’ esistenza di una congiura internazionale ordita dalla Dia e dall’ U.S. Marshal service, organismo deputato alla protezione dei testimoni negli Stati Uniti, avente lo scopo di manovrare i pentiti di mafia per fini destabilizzanti”. Personaggi “già legati a Mino Pecorelli” circolano attorno all’ agenzia, della quale è referente politico “privilegiato” il “gruppo dell’ on. Vittorio Sbardella” e direttore “Lando Dell’ Amico già legionario della X Mas di Junio Valerio Borghese…”. Una sequenza di azioni delegittimanti e fra queste azioni anche “l’ esposto presentato alla procura della repubblica di Roma nello scorso aprile, dai gruppi parlamentari democristiani per denunciare una presunta cospirazione” compiuta attraverso l’ uso strumentale dei pentiti. Il riferimento è alla protesta della Dc dopo la richiesta di autorizzazione a procedere per Andreotti della magistratura di Palermo. Qualcosa di antico e qualcosa di torbido. De Gennaro non indica i nuovi alleati politici di Cosa nostra. Elenca però gli avversari di chi sta combattendo contro Cosa nostra, dal fronte della fermezza.

Sandra Bonsanti per La Repubblica, 3 settembre 1993

 

Cento nomi nascondono i segreti delle stragi

Parla Roberto Scarpinato, nuovo procuratore generale a Caltanisetta

Dottor Roberto Scarpinato, come nuovo procuratore generale a Caltanissetta lei dovrà occuparsi dell’iter della revisione del processo per la strage di via D’Amelio, che a quanto pare ha condannato definitivamente almeno sette persone innocenti, di cui tre si erano autoaccusate falsamente. Ora, sulle stragi del 1992-93, i suoi colleghi di Palermo e Caltanissetta dicono che siamo prossimi a una verità che la classe politica potrebbe non reggere. Qual è la sua opinione?

Proprio a causa del mio nuovo ruolo non posso entrare nel merito di indagini e processi in corso. Mi limito a un sommario inventario che induce a ritenere che i segreti del multiforme sistema criminale che pianificò e realizzò la strategia terroristico-mafiosa del 1992-93 siano a conoscenza, in tutto o in parte, di circa un centinaio di persone. E tutte, dalla prima all’ultima, continuano a custodirli dietro una cortina impenetrabile.

E chi sarebbero tutte queste persone?

Partiamo dai mafiosi doc: Riina, Provenzano, i Graviano, Messina Denaro, Bagarella, Agate, i Madonia di Palermo, Giuseppe Madonia di Caltanissetta, Ganci padre e figlio, Santapaola e tutti gli altri boss della “commissione regionale” di Cosa Nostra che si riunirono a fine 1991 per alcuni giorni in un casale delle campagne di Enna per progettare la strategia stragista. Una trentina di boss che poi riferirono le decisioni in tutto o in parte ai loro uomini di fiducia. Altre decine di persone. Nessuno di loro ha mai detto una parola sul piano eversivo globale. Le notizie che abbiamo ce le hanno fornite uomini d’onore che le avevano apprese in via confidenziale da alcuni partecipanti al vertice, come Leonardo Messina, Maurizio Avola, Filippo Malvagna. Altri a conoscenza del piano sono stati soppressi poco prima che iniziassero a collaborare, come Luigi Ilardo, o sono stati trovati morti nella loro cella, come Antonino Gioè. Agli esecutori materiali delle stragi o di delitti satellite, i vertici mafiosi in genere non rivelavano i retroscena politici del piano stragista, si limitavano a fornire spiegazioni di causali elementari e di copertura. Aggiungiamo i vertici della ndrangheta che, come hanno rivelato vari collaboratori, tennero nello stesso periodo una riunione analoga nel santuario di Polsi.

Chi altri sa?

È da supporre una serie di personaggi che anticiparono gli eventi che poi puntualmente si verificarono. L’agenzia di stampa “Repubblica” vicina a Vittorio Sbardella, ex leader degli andreottiani romani (nulla a che vedere col quotidiano omonimo) scrisse 24 ore prima di Capaci che di lì a poco si sarebbe verificato “un bel botto” nell’ambito di una strategia della tensione finalizzata a far eleggere un outsider come presidente della Repubblica al posto del favoritissimo Andreotti. Il che puntualmente avvenne, così Andreotti fu costretto a farsi da parte e venne eletto Scalfaro. Anni dopo Giovanni Brusca ha riferito che la tempistica di Capaci era stata preordinata per finalità che coincidono esattamente con quelle annunciate nel profetico articolo. Dunque, o l’autore aveva la sfera di cristallo, o conosceva alcuni aspetti della strategia stragista e aveva deciso di intervenire sul corso degli eventi con una comunicazione cifrata, comprensibile solo da chi era a parte del piano.

L’agenzia Repubblica aveva pure anticipato il progetto globale in cui si inscriveva il delitto Lima.

Esattamente. Il 19 marzo 1992, pochi giorni dopo l’assassinio di Salvo Lima (andreottiano come Sbardella, ndr), l’agenzia annunciò che l’omicidio era l’incipit di una complessa strategia della tensione “all’interno di una logica separatista e autonomista […] volta a consegnare il Sud alla mafia siciliana per divenire essa stessa Stato al fine di costituirsi come nuovo paradiso del Mediterraneo […] mediante un attacco diretto ai centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari […]. Paradossalmente il federalismo del Nord avrebbe tutto l’interesse a lasciare sviluppare un’analoga forma organizzativa al Sud lasciando che si configuri come paradiso fiscale e crocevia di ogni forma di traffici e di impieghi produttivi, privi delle usuali forme di controllo, responsabili della compressione del reddito derivabile dalla diversificazione degli impieghi di capitale disponibile”. Anni dopo Leonardo Messina rivelò alla magistratura e all’Antimafia il progetto politico secessionista di cui si era discusso nel summit di Enna su input di soggetti esterni che dovevano dare vita a una nuova formazione politica sostenuta da “vari segmenti dell’imprenditoria, delle istituzioni e della politica”. Come faceva l’autore dell’articolo a sapere ciò che anni dopo avrebbe svelato Messina? È come se circolassero informazioni in un circuito separato e parallelo a quello destinato alla massa. Un circuito soprastante alla base mafiosa, delegata ad eseguire la parte militare del piano, e interno alla mente politica collettiva che quel piano aveva concepito, anche se poi quel piano mutò in corso d’opera per una serie di eventi sopravvenuti, e si puntò così ad una diversa soluzione incruenta. In questo quadro c’è poi da chiedersi perché, in un’intervista del 1999, il professor Miglio, ex teorico della Lega Nord, dichiarò parlando dei fatti dei primi anni ‘90: “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”.

Andiamo avanti.

L’ex neofascista Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, il 4 marzo 1992 scrisse una lettera dal carcere al giudice Leonardo Grassi per anticipargli che “nel periodo marzo-luglio” si sarebbero verificati fatti per destabilizzare l’ordine pubblico con esplosioni dinamitarde e omicidi politici. Puntualmente il 12 marzo fu ucciso Lima e nel maggio e luglio ci furono le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il 18 marzo Ciolini aggiunse che il piano eversivo era di “matrice masso-politico-mafiosa” , come rivelarono poi alcuni collaboratori di giustizia, e preannunciò un’operazione terroristica contro un leader del Psi. Anni dopo accertammo che era stato progettato l’omicidio di Claudio Martelli, fallito per alcuni imprevisti.

Chi manca, alla “lista della spesa”?

Quanti si celavano dietro la sigla della “Falange armata” i quali, pochi giorni dopo le dimissioni di Martelli da ministro perché coinvolto nelle indagini sul conto segreto svizzero “Protezione” a seguito delle dichiarazioni rese da Silvano Larini (il 9.2.1993) e da Licio Gelli (il 17.2.1993), diffusero il 21 aprile 1993 un comunicato per invitare Martelli a non fare la vittima e ad essere “grato alla sorte che anche per lui si sia potuta perseguire la via politica invece che quella militare”; e poi per lanciare avvertimenti a Spadolini, Mancino e Parisi, annunciando future azioni. Pochi mesi dopo, la manovra dello scandalo dei fondi neri del Sisde indusse Parisi a dimettersi, fece vacillare il ministro Mancino e anche il presidente Scalfaro, il quale denunciò che dietro quella vicenda si muovevano oscuri progetti di destabilizzazione politica.

E poi?

L’elenco sarebbe molto lungo e coinvolgerebbe tanti soggetti di quali non posso parlare, visti i limiti che derivano dal mio ruolo. Possiamo forse aggiungere alcuni di coloro che hanno concepito il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio: cioè la costruzione a tavolino, tramite falsi pentiti, di una versione minimalista che ha “tarato” le indagini verso il basso, circoscrivendola a una banda di piccoli criminali come Scarantino, e garantendo intorno ad essa un muro impenetrabile di omertà che ha retto fino a un paio di anni fa, cioè alle dichiarazioni autoaccusatorie di Spatuzza. Poi, se i riscontri dovessero confermare le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ci sono i vari “signor Franco” o “signor Carlo” che affiancarono suo padre Vito facendo da cerniera tra mondo mafioso e mondi superiori durante le stragi. E inoltre quanti garantirono a Provenzano, garante della soluzione politica alternativa a quella cruenta di Riina, di muoversi per anni liberamente per l’Italia e di visitare Vito Ciancimino gli arresti domiciliari. Poi coloro che fecero sparire l’agenda rossa di Borsellino. E tanti altri…

Come gli ufficiali del Ros Mori e De Donno, ora imputati per la mancata cattura di Provenzano dopo la trattativa che portò all’arresto di Riina, con annessa mancata perquisizione del covo e sparizione delle carte segrete del boss. E i superiori militari e politici che autorizzarono quella “trattativa”.

Non posso rispondere. Sono fatti ancora oggetto di indagini in corso.

Su questa convergenza di ambienti e interessi lei, a Palermo, aveva avviato l’indagine “Sistema criminale”, poi in parte archiviata. Che cos’è il sistema criminale?

Quello che abbiamo appena sintetizzato. Un sistema composto da esponenti di mondi diversi, tutti rimasti orfani dopo la caduta del Muro di Berlino delle passate protezioni, all’ombra delle quali avevano potuto coltivare i più svariati interessi economici e criminali, tra questi anche la mafia militare sino ad allora tollerata come anticorpo contro il pericolo comunista. Questi mondi intercomunicanti attraverso uomini cerniera erano accomunati da un interesse convergente: destabilizzare il sistema agonizzante della Prima Repubblica e impedire un ricambio politico radicale ai vertici del Paese con l’avvento delle sinistre al potere (la “gioiosa macchina da guerra”). Ciò doveva avvenire mediante la creazione di un nuovo soggetto politico che avrebbe dovuto conquistare il potere mediante un’articolata strategia che si snodava contemporaneamente sul piano militare e politico. La nostra ipotesi, almeno sul piano storico, esce sempre più confermata dalle recenti scoperte investigative. Nella stagione delle stragi si muovono molteplici operatori che poi si dividono i compiti. Chi concepisce il piano, chi lo realizza a livello militare, chi organizza la disinformazione e chi i depistaggi. Basterebbe che cominciasse a parlare qualcuno che conosce anche solo la sua parte, per consentirci enormi passi avanti nella ricerca della verità. Ma, finora, non parla nessuno.

Be’, mafiosi come Spatuzza e figli di mafiosi come Massimo Ciancimino parlano. E costringono a ricordare qualche esponente delle istituzioni: gli improvvisi lampi di memoria di alcuni politici, dopo 17-18 anni, sul ruolo di Mori durante la “trattativa” con Ciancimino fanno pensare che tanti a Roma sappiano molto, se non tutto…

Anche qui preferisco non addentrarmi in vicende specifiche, tuttora oggetto di indagini e processi. Prescindendo da casi specifici, vista dall’alto la tragica sequenza degli avvenimenti di quegli anni fa pensare al “gioco grande” di cui parlava Falcone: l’ennesimo gigantesco war game giocato all’interno di alcuni settori della nomenclatura del potere nazionale sulla pelle di tanti innocenti. Un war game trasversale combattuto anche a colpi di segnali, messaggi trasversali, avvertimenti in codice, veti incrociati e ricatti sotterranei: non potendo parlare esplicitamente tutti erano costretti a comunicare con linguaggi cifrati.

Perché dice “ennesimo war game”?

Tutta la storia repubblicana è segnata dal “gioco grande” celato dietro progetti di colpi di Stato poi rientrati (dal golpe Borghese al piano Solo) e stragi caratterizzate da depistaggi provenienti da apparati statali: da Portella della Ginestra alla strage di Bologna alle stragi del 1992-93. Perciò la questione criminale in Italia è inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale e con la questione stessa dello Stato e della democrazia.

Possibile che, in un Paese debole di prostata dove nessuno si tiene niente, i segreti sulle stragi custoditi da tanta gente tanto eterogenea restino impenetrabili a quasi vent’anni di distanza?

Molte stragi d’Italia nascondono retroscena che coinvolgono decine, se non centinaia di persone. Pensi a Portella della Ginestra: la banda Giuliano, i mafiosi, i servizi segreti, esponenti delle Forze dell’ordine, il ministero dell’Interno. Pensi alle stragi della destra eversiva. Così quelle politico-mafiose del 1992-93. La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo sebbene condiviso da decine e decine di persone, è il segno che su quel segreto è impresso il sigillo del potere. Un potere che cavalca la storia riproducendosi nelle sue componenti fondamentali e che eleva intorno al proprio operato un muro invalicabile di omertà, perché è così forte da poter depistare le indagini, alimentare la disinformazione, distruggere la vita delle persone, riuscendo a raggiungerle e a eliminarle anche nel carcere più protetto. Come Gaspare Pisciotta, testimone scomodo ucciso all’Ucciardone con un caffè alla stricnina, e a un’altra decina di persone al corrente dei segreti retrostanti la strage di Portella. E come Ermanno Buzzi, condannato in primo grado per la strage di Brescia e strangolato in carcere. Resta inquietante lo strano suicidio in carcere nel 1993 di Nino Gioè, appena arrestato e sospettato per Capaci, dopo strani incontri con agenti dei servizi e una strana trattativa avviata con Paolo Bellini, coinvolto in indagini sull’eversione nera negli anni 70, per aprire un canale con Cosa Nostra. Ed è inquietante che Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano, abbia raccontato di essere stato invitato a suicidarsi nel 2005, subito dopo l’inizio della sua collaborazione, ancora segretissima. Il muro dell’omertà comincia a fessurarsi solo quando il sistema di potere entra in crisi.

È per questo che oggi si aprono spiragli importanti di verità?

Presto per dirlo, ma ancora una volta la lezione della storia ce lo insegna. Quando la Prima Repubblica era potente, Buscetta, Marino Mannoia e altri collaboratori rifiutarono di raccontare a Falcone i rapporti mafia-politica: iniziarono a svelarli solo nel ‘92, quando quel sistema crollò, o meglio sembrò fosse crollato.

Oggi il governo appena qualcuno torna a parlare, vedi Spatuzza, gli nega il programma di protezione. Che messaggio è?

Quella decisione è stata presa contro il voto di dissenso dei magistrati della Procura nazionale antimafia che fanno parte della Commissione sui collaboratori di giustizia e contro il parere concorde dei magistrati di ben tre Procure della Repubblica antimafia: Caltanissetta, Palermo e Firenze. Intorno al caso Spatuzza e sul fronte delle indagini sulle stragi si è verificata una spaccatura assolutamente inedita tra magistrati e gli altri componenti della Commissione. Proprio perché non si tratta di una scelta di routine e proprio a causa di questa spaccatura, quella decisione in un mondo come quello mafioso che vive di segnali può essere equivocata e letta in modo distorto: nel senso che lo Stato in questo momento non è compatto nel voler conoscere la verità sulle stragi. Naturalmente non è affatto così, le motivazioni del dissenso sono di tipo giuridico, ma è innegabile che il pericolo esista.

Dunque hanno ragione i pm di Caltanissetta quando dicono in Antimafia che la politica non è pronta a fronteggiare l’onda d’urto delle nuove verità sulle stragi?

A me risulta che le loro dichiarazioni sono state riportate dalla stampa in modo inesatto. In ogni caso, sulle stragi e i loro retroscena abbiamo oggi un’occasione più unica che rara, forse l’ultima, per raccontare una storia collettiva sepolta da quasi vent’anni di oblio organizzato. Per restituire al Paese la sua verità e aiutarlo a divenire finalmente adulto. Se non dovessimo farcela neppure stavolta, non ci resterebbe che fare nostra un’amara considerazione di Martin Luther King: “Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici”.

Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2010

La Dia avvertì: «Attenti ai cedimenti»

Una lunga memoria per dare al giudice le coordinate di un’inchiesta lunga quattro anni ma che dura da venti e occupa qualcosa come settanta faldoni. Il pool dei magistrati antimafia di Palermo, l’aggiunto Ingroia, i sostituti Di Matteo, Sava e Del Bene la sta preparando per aiutare il giudice che dovrà decidere se rinviare a giudizio i 12 imputati per l’accusa di attentato a corpo politico dello Stato orientandosi tra decine e decine di testimonianze frammentate, alcune reticenti, molte tardive. Per ricollegare i fili e i punti di una presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra che, si spiega, «si sviluppa tra il 1992 e il 1994 ed è formata da tante microtrattative». Quella sul 41 bis, sull’attenuazione del regime di carcere duro per i boss (che si realizza nel novembre 1993 con la cessazione del regime per 334 mafiosi) è stata solo una di queste microtrattative. La memoria sarà pronta entro la fine di agosto. E avrà, probabilmente, come punto d’inizio la relazione che la Direzione investigativa antimafia (Dia) allora diretta da Gianni De Gennaro consegnò all’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino il 10 agosto 1993, dopo le bombe che Cosa Nostra fece esplodere tra aprile e luglio a Roma, Firenze e Milano e dopo l’arresto di Totò Riina (gennaio 1993). L’anno prima la Dia scrisse un’analoga relazione all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Entrambe furono consegnate alla Commissione nazionale antimafia con il timbro Riservato . Adesso tra gli atti depositati a Palermo per la richiesta di rinvio a giudizio per la trattativa, c’è la relazione del 1993. Ventiquattro pagine che già vent’anni fa mettevano in guardia non solo dall’ipotesi di una trattativa con Cosa Nostra che sarebbe stato «un pericoloso cedimento» nei confronti dell’organizzazione criminale «alla ricerca di una nuovo ordine politico e di un nuovo interlocutore istituzionale». Ma intravedevano dietro le bombe il profilo di «un’aggregazione di tipo orizzontale in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergoano finalità diverse». Nel 1993 l’elite degli investigatori antimafia avevano già capito che dietro le bombe e le stragi di quel biennio non c’era solo Cosa Nostra. Ma anche altro che aveva a che fare «con la politica, funzionari di Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti». La relazione, pubblicata su L’Unità on line a gennaio scorso, parte dall’assunto che «l’omicidio di Salvo Lima e la strage di Capaci sono momenti significativi di una strategia di difesa di Cosa Nostra elaborata in un momento in cui la stessa sopravvivenza dell’organizzazione era stata compromessa dalla definitiva sentenza di condanna del maxi processo, dal crescente peso assunto dai collaboratori di giustizia, dalla sempre più efficace risposta investigativa e dalla certezza del carcere per arrestati e condannati». Già dopo via D’Amelio, nel 1992, la Dia scrive che «Cosa Nostra è compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato» e che quella strage «tradiva obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa Nostra». Dopo il 1992, insomma, è già chiaro che ci sarebbe stata una guerra: «All’interno di Cosa Nostra – si legge nel rapporto Dia – e degli altri poteri ad essa collegata stava maturando una vera e propria scelta stragista dai contorni indefiniti ma chiaramente proiettata verso uno scontro frontale e violento con le istituzioni». A novembre 1992 indagini e «notizie fiduciarie» segnalano «un pericoloso riarmo di Cosa Nostra, l’inizio di una serie di attentati contro aeromobili e strutture aeroportuali, azioni criminali di devastante portata anche contro uomini delle istituzioni». Accanto e insieme, gli investigatori individuano la presenza di «ispiratori», «gruppi estremisti», «malavita comune», «ambienti massonici». Verosimilmente, continuano gli investigatori della Dia, «la sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una soluzione politica potrebbe essersi andata a saldare con gli interessi di altri centri di potere ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso il progetto che tende ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità ovvero ad innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo o comunque per garantirsi uno spazio di sopravvivenza». Contri: «Mori e Ciancimino» Questo il quadro d’insieme, molto più che allarmante, che il ministro dell’Interno Nicola Mancino legge nell’agosto 1993. C’è scritto che le bombe servono da una parte ad alleggerire la pressione delle indagini e dall’altra a trovare nuovi interlocutori istituzionali. C’è scritto guai a fare «concessioni» e «cedimenti» o «ad abbandonare la linea dura». Eppure, in quegli stessi mesi che la Dia scriveva queste cose, ufficiali dell’Arma cercano contatti con Vito Ciancimino. Cercano e ottengono udienza dal politico che rappresentava gli interessi di Cosa Nostra. Nel mare di carte depositate ci sono, anche, i verbali di Fernanda Contri, avvocato, ex membro del Csm e giudice costituzionale. Nel gennaio 2010, quando le tv cominciano a parlare spesso di trattativa, chiede di essere sentita dai magistrati di Caltanissetta ( che indagano su alfa e beta per concorso in strage). Dal primo luglio 1992 ha ricoperto il ruolo di Segretario generale presso la presidenza del Consiglio dei ministri. In quel ruolo, per tre volte tra luglio e dicembre 1992, Contri racconta di aver incontrato l’allora colonnello Mori. «Mi disse che stava sviluppando importanti investigazioni incontrando Vito Ciancimino di cui si era fatto l’idea che fosse il capo o uno dei capi della mafia». Di quegli incontri Contri parlò anche con il presidente Amato. È un dato acquisito che Ciancimino era il portavoce delle richieste di Cosa Nostra allo Stato.

Claudia Fusani per L’Unità, 26 luglio 2012