“Vittorio Mangano è stato ripetutamente invitato a fare dichiarazioni contro di me …Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con aiuti premio e si sarebbe salvato. È un eroe, a suo modo”
E’ l’aprile del 2008. A parlare così di un mafioso condannato per omicidio e traffico di stupefacenti (morto agli arresti domiciliari nel luglio 2000) è Marcello Dell’Utri, l’uomo che “Berlusconi non contraddice mai” (copyright Luigi Bisignani, P2). Una frase mai ritrattata (anzi rivendicata) e che descrive la spregiudicatezza di un personaggio indicato dalla Procura di Palermo come l’ultimo referente della trattativa.
Avrebbe preso il posto di Vito Ciancimino nel dicembre 1992 (quando l’ex sindaco di Palermo finisce agli arresti) e stretto con la Cupola il ‘nuovo patto’. La mafia smette di seminare bombe e panico, abbandona il progetto utopistico di Sicilia Libera e si mette a lavorare per il nuovo partito dell’amico Marcello. Ma i pm di Palermo come arrivano a dipingere un simile scenario?
IL PROCESSO PER CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA
Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ridotti a sette in Appello. Le due sentenze differiscono l’una dall’altra per l’arco temporale cui fanno riferimento. Nella prima il braccio destro di Silvio Berlusconi viene giudicato a disposizione di Cosa Nostra fino al 1994, anno della discesa in campo del Cavaliere. La sentenza d’Appello retrodata di due anni (a tutto il 1992) la sua collusione.
Dell’Utri commenterà: “Se fossero veri i rapporti tra me e Cosa Nostra per arrivare a Berlusconi, è strano che proprio nel momento in cui a Cosa nostra poteva servire un referente politico come Berlusconi avesse mollato tutto. Questa è, appunto, una illogicità manifesta della sentenza”.
La prima sentenza d’Appello viene annullata con rinvio dalla Cassazione. Il 25 marzo 2013 la Corte d’Appello lo condanna nuovamente a sette anni, considerandolo “uomo cerniera”, mediatore e garante degli interessi di Cosa Nostra, almeno fino al 1992.
Cosa esce fuori dal processo a carico del co-fondatore di Forza Italia? Una serie di fatti e circostanze considerati provati da tutte le sentenze, alcuni ammessi dallo stesso Dell’Utri.
ANNI ’70, ARCORE
Dell’Utri conosce il giovane Silvio Berlusconi negli anni Sessanta. Dopo una breve parentesi come dirigente di banca a Palermo, il futuro senatore della Repubblica si trasferisce ad Arcore nel 1974, nella villa appena acquistata dal futuro Presidente del Consiglio (per pochi ‘spiccioli’ rispetto al reale valore della tenuta). E’ Dell’Utri ad aprire le porte di casa Berlusconi a Vittorio Mangano, chiamato da Palermo a ricoprire il ruolo di stalliere, nonostante l’inesistenza di cavalli nella villa.
Chi è Mangano? Un mafioso con precedenti penali alle spalle (noti a Dell’Utri, lo scrivono i Carabinieri), del mandamento palermitano di Porta Nuova, indicatogli da Taninò Cina, altro mafioso del clan Malaspina. “Uomo d’onore della famiglia di Pippo Calò (il cassiere di Cosa Nostra, ndr), cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta”. E’ la descrizione di Paolo Borsellino nell’intervista del 21 maggio 1992.
L’INCONTRO CON BONTATE, I SEQUESTRI DI PERSONA
Lo ‘stalliere’ viene ‘assunto’ a seguito di un incontro del 1974 (che tutte le sentenze ritengono provato) tra Berlusconi, Dell’Utri e il vertice di Cosa Nostra rappresentato da Stefano Bontate e Mimmo Teresi. Presente all’incontro anche il futuro collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (capo della famiglia di Altofonte, appartenente al mandamento di San Giuseppe Jato guidato dai Brusca), uno degli oltre 30 pentiti che accusano Dell’Utri.
“A venirci incontro è stato proprio Dell’Utri e ci ha salutati – ricorda Di Carlo a proposito dell’incontro – una stretta di mano, con Tanino Cinà si è baciato, con gli altri si è baciato, con me no… si è baciato anche con Stefano Bontate, il capo della mafia. Dopo un quarto d’ora è spuntato questo signore sui 30 anni e rotti e hanno presentato il dott. Berlusconi a tutti… Ci hanno offerto il caffè e quando arriva Berlusconi, cominciano a parlare di cose più serie: lavoro, ognuno che attività faceva, Teresi stava facendo due palazzi a Palermo… Berlusconi ha fatto dieci o venti minuti di parlare, ci ha dato una lezione economica e amministrativa perché aveva in costruzione una città 2, come chiamavano Milano 2”.
Scrivono i giudici che hanno condannato in primo grado Marcello Dell’Utri: “Durante l’incontro venne affrontato anche il discorso della garanzia…Bontate rassicurò il suo interlocutore (Berlusconi, ndr), valorizzando la presenza al suo fianco di Dell’Utri e garantendo il prossimo invio di qualcuno”. Quel qualcuno è Vittorio Mangano, l’eroe di Dell’Utri.
Che ruolo ha Mangano? Paolo Borsellino lo indicherà nel 1992 come la “testa di ponte” di Cosa Nostra al Nord, ma ad Arcore svolge il ruolo di ‘guardaspalle’. La Lombardia è teatro di sequestri, voluti e organizzati da Luciano Liggio, il Corleonese che all’epoca contava tra i suoi luogotenenti Totò Riina e Bernardo Provenzano. La presenza di Mangano ad Arcore è una garanzia.
Garanzia per Berlusconi, non per i suoi amici. Nel dicembre 1974 Mangano è il basista del fallito sequestro di Luigi d’Angerio, prelevato dopo aver cenato con il Cavaliere ad Arcore (ma riuscirà a fuggire). I Carabinieri avvisano Berlusconi dei loro sospetti, lo ‘stalliere’ verrà arrestato due volte (dicembre 1974 e dicembre 1975) per altre accuse. Ma Berlusconi non fa una piega e Mangano resta ad Arcore.
IL FLUSSO DI DENARO DA FININVEST A COSA NOSTRA
Cosa Nostra ‘protegge’ Berlusconi su mediazione di Dell’Utri ma non lo fa gratis. L’imprenditore “pagò ingenti somme di denaro a Cosa nostra in cambio della protezione alla sua persona e ai suoi familiari e per le sue tv fino al 1992…una scelta ben precisa… pagare chi lo minacciava o formulava richieste estorsive e intimidazioni, piuttosto che denunciare“. Lo scrive la Corte d’Appello nella prima sentenza che condanna Dell’Utri a sette anni. Ma lo ribadisce la Cassazione che annulla con rinvio quella sentenza: “Ha tenuto (Dell’Utri, ndr) un comportamento di rafforzamento dell’associazione mafiosa fino a una certa data, favorendo i pagamenti a Cosa nostra di somme non dovute da parte di Fininvest”.
Anche la sentenza di primo grado (dicembre 2004) considera provato il “versamento annuale” a Cosa Nostra di “centinaia di milioni di lire da parte della Fininvest”.
MANGANO E DELL’UTRI LASCIANO ARCORE: L’AFFARE DEI ‘CAVALLI’
I due arresti di Mangano (1974-1975) fanno rumore, i giornali locali parlano di “un mafioso a casa Berlusconi”: lo ‘stalliere’ lascia Arcore di sua iniziativa e si stabilisce in un hotel di Milano. Verrà arrestato nel maggio 1980 su richiesta di Giovanni Falcone: condannato nel processo Spatola per traffico di stupefacenti, resterà in carcere fino al 1991.
Nel frattempo Dell’Utri litiga con Berlusconi: vorrebbe fare il dirigente ma l’amico non lo giudica all’altezza. Trova subito un altro lavoro presso la Inim di Filippo Alberto Rapisarda, uomo legato a Ciancimino e alla famiglia Cultrera-Caruana, al tempo tra i principali trafficanti di droga a livello mondiale. Proprio Rapisarda depone al processo a carico di Dell’Utri: “Mi disse che la sua attività di mediazione era servita a ridurre le pretese di denaro dei mafiosi (a Berlusconi, ndr)”. Dell’Utri conferma, ma disse di aver pronunciato quelle parole per “vanteria”(!). Nel 1978 diventa ad della Bresciano Costruzioni, ma viene accusato di bancarotta fraudolenta. Rapisarda intanto fugge in Venezuela, ospite dei narcotrafficanti Cultrera-Caruana.
Nel periodo 1976-1980, fino all’arresto voluto da Falcone, il legame con Mangano non si allenta. Nell’ottobre 1976 partecipa alle nozze del boss Antonino Calderone, alla presenza dell’ex stalliere di Arcore. Il 5 febbraio 1980 viene intercettato dalla Criminalpol (che indaga su un traffico di droga) al telefono con Mangano, che gli parla di “un affare da proporgli per un cavallo”. Dell’Utri risponde che servono “i piccioli” ma che lui non ne ha. E allora Mangano lo invita a chiederli “al principale Berlusconi”, ma il futuro senatore risponde che il Cavaliere “non è un santo che suda”, vale a dire ‘non paga’.
Dunque Mangano ha davvero qualcosa a che fare con i cavalli? Non proprio. Lo ‘facciamo spiegare’ a Paolo Borsellino, nell’intervista del 21 maggio 1992 (due giorni prima della strage di Capaci) rilasciata al giornalista francese Fabrizio Calvi ed al regista Jean Pierre Moscardo: “Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l’interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l’arrivo di una partita d’eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come “magliette” o “cavallo”.