Delitto Ilardo, aperto fascicolo sui mandanti occulti

CATANIA – Quando Gino Ilardo fu ucciso lo Stato perse uno delle voci che potevano servire alla giustizia per vincere la battaglia con la mafia. Il 10 maggio 1996 in Via Quintino Sella a Catania, intorno alle 21, il confidente di Michele Riccio scende dalla sua Mercedes e prima che potesse entrare a casa venne ucciso. Quella voce fu messa a tacere. Un delitto eccellente, il cui eco arrivò fino all’orecchio dei Capi di Cosa Nostra palermitana passando dai vertici della famiglia reggente di Caltanissetta. Un omicidio eccellente perché Luigi Ilardo, detto Gino, era il cugino del boss di Caltanissetta Giuseppe Piddu Madonia ed era colui che aveva messo i Ros sulle tracce del padrino Bernardo Provenzano, senza dimenticare che pochi giorni prima del delitto aveva manifestato l’intenzione di diventare collaboratore di giustizia. La procura di Catania, da circa due anni, ha riaperto l’inchiesta ed è arrivata a identificare mandanti e componenti del gruppo di fuoco che tesero l’agguato in Via Quintino Sella al cugino di Piddu Madonia. La Squadra Mobile di Catania ha eseguito un ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal Gip Marina Razza nei confronti di Giuseppe Madonia, 67 anni, Maurizio Zuccaro, 52 anni, ritenuti il primo mandante e il secondo organizzatore, e Orazio Benedetto Cocimano, 49 anni, come uno dei componenti del gruppo di fuoco. (Accusati di far parte del gruppo di killer anche Piero Giuffrida e Maurizio Signorino, uccisi per mano mafiosa, e una quarta persona non identificata).

La svolta nelle indagini arriva nel 2010: un testimone oculare avrebbe assistito all’uccisione di Gino Ilardo. Eugenio Sturiale, diventato collaboratore di giustizia proprio in quel periodo, racconta nei minimi dettagli i momenti di quel delitto di cui è testimone involontario, in quanto nel 1996 abitava in un palazzo ubicato vicino alla scena del crimine. Sturiale, la sera del delitto, stava tornando a casa (ed era anche di gran fretta, perché essendo sorvegliato speciale doveva rientrare entro le 21) quando si accorge della presenza di Maurizio Signorino e Benedetto Cocimano. Soggetti che il collaboratore conosceva bene essendo stato esponente del Clan Santapaola prima di traghettare nel gruppo dei Cappello. Sturiale cambia strada cercando di non farsi vedere, poi nell’angolo tra via Quintino Sella e Via Mario San Giorgi arriva una Mercedes con a bordo Gigi Ilardo, che scende dalla macchina e – sempre secondo la ricostruzione del collaboratore – si avvicina a Piero Giuffrida. Pochi secondi e all’orecchio di Sturiale arriva il rimbombo inconfondibile di ben sei colpi di pistola, poi il suono di due motociclette che si allontanano. Una versione che viene confermata anche dalla moglie di Sturiale, anche lei diventata collaboratrice, Palma Biondi che racconta quanto gli aveva riferito il marito rientrando quella notte. Elemento probatorio la cui attendibilità è evidenziata dal fatto che Sturiale aveva già raccontato di aver assistito all’omicidio di Luigi Ilardo nel 2001 al sottoufficiale della Dia Mario Ravidà. Le persone identificate da Sturiale sono tutte riferibili al gruppo di fuoco di Maurizio Zuccaro (arrestato come mandante). Occorre sottolineare che nei giorni precedenti all’omicidio il collaboratore aveva già visto aggirarsi nella zona Signorino, ma anche Santo La Causa.

L’inchiesta viene avviata: i sostituti Pasquale Pacifico e Agata Santonocito, diretti dal procuratore Giovanni Salvi, sviscerano in uno dei gialli della storia mafiosa degli anni 90. Il fascicolo si arricchisce di importanti dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia come Natale Di Raimondo, Calogero Pulci, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè e Carmelo Barbieri. Fondamentali anche le lettere e le fono registrazioni di Michele Riccio raccolte durante gli anni in cui Ilardo era confidente dell’ufficiale dei Ros: da questo emerge il profilo, lo spessore criminale e le conoscenze all’interno di Cosa Nostra della vittima. Il cugino del boss Giuseppe Piddu Madonia aveva legami diretti con Bernardo Provenzano, prova ne è il famoso incontro del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso (come emerge nel processo contro il generale Mori).

Dalle diverse dichiarazioni, tra cui le più recenti di Santo La Causa, la Dda riesce a identificare mandanti ed esecutori. L’ordine parte dal carcere direttamente da Piddu Madonia che delega i Santapaola. In quel periodo è in corso il processo Orsa Maggiore, si ipotizza che il boss di Caltanissetta e Enzo Santapaola (che fa da cerniera con l’esterno) siano riusciti a comunicare durante le udienze. Il messaggio di uccidere arriva nelle mani di Santo La Causa, ma Maurizio Zuccaro era stato già informato. L’ex reggente operativo del Clan Santapaola è coinvolto nell’organizzazione del delitto, tanto che partecipa anche ad alcuni sopralluoghi vicino l’abitazione di Ilardo, nella fase esecutiva  però –  come riferisce il collaboratore stesso – viene improvvisamente scavalcato: “Scoprirò da Cucimano che il lavoro era stato già fatto”. Un’accelerazione improvvisa e quasi ingiustificata. Per motivare quel delitto si diffuse la voce nel clan che Gigi Ilardo era coinvolto nell’omicidio dell’avvocato Famà, delitto collegato all’epoca secondo la criminalità organizzata alla morte di Carmela Minniti (moglie di Nitto Santapaola). Oltre a questo, il delfino della famiglia di Caltanissetta fu accusato di aver trattenuto indebitamente i proventi delle estorsioni alle acciaierie Megara  Ragioni che però, da come emerge dagli interrogatori ai collaboratori, servivano “quasi a depistare” il vero movente, e cioè che si era scoperto che Ilardo era un confidente. La velocità e la coincidenza dell’approssimarsi a collaborare della vittima, però, ha creato dei sospetti nella magistratura: Cosa nostra aveva scoperto che Ilardo era un confidente e voleva ucciderlo, ma il piano era quello di tenderlo in un agguato e addirittura di torturarlo per far raccontare quello che aveva spifferato agli “sbirri” (un caso di lupara bianca), ma all’improvviso sapendo che avrebbe collaborato con la giustizia è stato deciso che doveva essere ucciso subito e in qualsiasi modo. Dalle indagini è stato identificato anche Enzo Santapaola (figlio di Salvatore) che avrebbe avuto il ruolo di cerniera, la richiesta su questo indagato non è stata accolta dal Gip, ma i pm sono pronti a presentare ricorso al riesame.

Fascicolo sui mandanti occulti. Presi i presunti mandanti e i killer che uccisero Gino Ilardo la procura di Catania, guidata da Giovanni Salvi, vuole andare oltre e identificare chi ha permesso “quello spiffero” (come lo ha definito il collaboratore Giovanni Brusca) dalle mura delle istituzioni alle carceri del 41 bis dove veniva informata Cosa Nostra che il cugino di Piddu Madonia, “era sbirro” e presto sarebbe diventato collaboratore di giustizia. Un fascicolo è stato aperto per identificare i mandanti occulti dell’agguato di Via Quintino Sella del 10 maggio 1996. L’indagine, che oggi ha portato all’esecuzione dell’ordinanza alla Squadra Mobile, è solo la base di un inchiesta che potrebbe scavare in quella “zona grigia” che legherebbe Stato e Mafia. Le risultanze investigative infatti aprono squarci verso questa direzione, ipotizzando con “logica ineludibile” che l’uccisione del confidente “era stata posta in essere per evitare che iniziasse a collaborare con la giustizia” e che di questa sua intenzione “erano stati informati i suoi mandanti”, tanto che il delitto viene “progettato e eseguito in un ristrettissimo arco temporale”.

Ilardo è una delle figure chiavi della requisitoria del Pm Nino Di Matteo nel processo a carico degli ufficiali dei Ros Mori e Obinu: il vertice della famiglia di Caltanissetta era la fonte Oriente di Michele Riccio che nel ’95 aveva fornito elementi utili per catturare Bernando Provenzano, ma per “ragioni” ancora poco chiare l’irruzione a Mezzojuso non scattò e il padrino rimase latitante. Per il procuratore di Palermo questo accadde proprio perché “c’era una trattativa, e negli accordi era previsto che Binnu dovesse rimanesse libero”. Gino Ilardo con le sue dichiarazioni, dunque, poteva ferire mortalmente il cuore della cupola di Cosa Nostra. Tappargli la bocca poteva già essere nei piani dell’organizzazione criminale, ma quello che crea interrogativi è l’improvvisa accelerazione nell’esecuzione nel delitto avvenuto proprio pochi giorni dopo l’incontro a Roma dove Luigi Ilardo – come racconta Michele Riccio nel corso del suo lungo interrogatorio nel processo in corso a Palermo – “Il 2 Maggio del 1996 davanti all’allora procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra e ai pm Giancarlo Caselli e Teresa Principato disse di voler collaborare con la giustizia”. Tutto non fu formalizzato quello stesso giorno, ma rimandato di 15 giorni. Luigi Ilardo, però, morirà prima.

Laura Distefano per livesicilia.it del 12 giugno 2013

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«Noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano! »

L’esposto di Salvatore Fiducia è arrivato pochi giorni dopo la presentazione di un’analoga denuncia firmata dal caposcorta del pm Di Matteo Saverio Masi. Anche lui maresciallo, anche lui nei primi anni 2000 in servizio presso il nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo. Il suo racconto è molto articolato e riguarda essenzialmente tre episodi chiave. Il primo risale all’inizio del 2001, quando Masi individua «un casolare, sito in una contrada del comune di Ciminna (Palermo), probabile rifugio del boss corleonese, di proprietà degli stessi soggetti indagati nell’ambito di separata indagine che ha portato alla scoperta di un’abitazione, luogo di incontro tra il Provenzano e il boss confidente Luigi Ilardo, la cui rilevanza penale è sottoposta a valutazione nel cosiddetto “processo Mori” in corso di svolgimento dinanzi al Tribunale Penale di Palermo».
Ilardo era un confidente del colonnello Riccio e venne ucciso da Cosa nostra pochi giorni prima di riuscire a deporre davanti ai magistrati dell’antimafia. Della sua testimonianza rimangono sei cassette audio registrate dall’ufficiale dei carabinieri prima della sua morte. Secondo la ricostruzione della Dda di Palermo già nel 1995 Ilardo era riuscito ad organizzare un incontro con Provenzano, avvisando il Ros. Ma i carabinieri guidati da Mori non approfittano dell’occasione. Ilardo verrà poi ucciso il 10 maggio del 1996.
Dunque, secondo Masi, sei anni dopo Provenzano era protetto dagli stessi soggetti che avevano garantito nel 1995 la sua latitanza; un elemento che sicuramente poteva avvalorare quella sua indagine. La sua attività viene però bloccata: «Incredibilmente», scrive Masi, «il denunciante ha avuto ordine, da parte del superiore, di interrompere le investigazioni intraprese».
Pochi mesi prima dell’arresto di Bernardo Provenzano Masi, secondo il suo stesso racconto, era di nuovo sulle tracce del boss di Corleone. Si stava occupando in particolare di Massimiliano Ficano, uomo ritenuto all’epoca vicino a Provenzano, attraverso il cognato Simone Castello. Anche in quel caso accade qualcosa di anomalo: «Per mesi le indagini sul Ficano non hanno avuto alcun esito poiché al momento dei necessari pedinamenti è stato dato ordine all’esponente (cioè all’autore dell’esposto, ndr) di interrompere l’attività».
Un terzo episodio riguarda Matteo Messina Denaro e l’inchiesta – condotta dall’allora procuratore di Palermo Pietro Grasso, succeduto a Caselli – su Michele Ajello e le talpe in Procura (l’indagine portò poi alla condanna di Salvatore Cuffaro). La segretaria di Ajello, re della sanità privata siciliana, era la sorella di Maria Mesi, ritenuta la compagna – o per alcuni la moglie – di Messina Denaro, il boss latitante dagli anni ‘90, erede di Riina e Provenzano.
Masi spiega che a lui erano state affidate le indagini sul fratello di Maria Mesi, pista che avrebbe potuto portare al super latitante. Seguendo l’automobile del suo uomo con il Gps si accorge che sostava qualche minuto in un punto tra i comuni di Bagheria e Misilmeni. Chiede ai superiori di accertare cosa vi fosse in quelle determinate coordinate. La risposta che riceve dopo qualche giorno, ricorda Masi, lo lascia sospettoso: “Non c’è nulla”, gli spiega un ufficiale. Il maresciallo non ci crede e di notte va con un collega sul luogo, per verificare personalmente. Nel punto esatto c’era un contatore dell’Enel e, pochi metri più in là, un casolare con un gruppo di persone – così scrive nell’esposto – che stavano perlustrando la zona perché probabilmente avevano percepito la sua presenza. Anche in questo caso le indagini non sarebbero proseguite.
Masi, nel descrivere quella che secondo lui era una precisa volontà da parte di alcuni ufficiali di non catturare Provenzano, ricorda poi le chiare pressioni che avrebbe ricevuto durante un’altra indagine su esponenti vicini al boss di Corleone: «Noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano! Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare?», gli avrebbe urlato un ufficiale. Un ordine che subito dopo si trasforma in un’offerta: “Dicci cosa vuoi che te lo diamo. Ti serve il posto di lavoro per tua sorella? Te lo diamo in tempi rapidi!».
L’attendibilità delle due denunce è ora al vaglio dei magistrati della Dda di Palermo. Il maresciallo Masi aveva già deposto nel 2010 durante il processo contro il generale Mori, raccontando di quanto gli aveva riferito il colonnello Angeli sul mancato sequestro del papello di Riina durante una perquisizione del 2005 nella casa dell’Addaura di Massimo Ciancimino. Secondo la sua testimonianza Angeli aveva avvisato il suo superiore dell’epoca che, a sua volta, avrebbe risposto bloccando il sequestro del documento.
A fine marzo, durante la requisitoria, il Pm Di Matteo si è detto sicuro dell’attendibilità di Saverio Masi su questo episodio, ritenendolo un testimone «coraggioso».
Il maresciallo, d’altra parte, nel 2009 è stato denunciato dai suoi superiori con l’accusa di tentata truffa, reato di cui sta rispondendo ora in Corte d’appello, dopo una prima condanna a otto mesi. Un episodio che, però, appare decisamente banale: Masi presentò una relazione con una sigla illeggibile di un ufficiale – falsificata secondo l’accusa – per chiedere alla polizia stradale l’annullamento di una multa ricevuta mentre con un’auto non di servizio si recava da un confidente. La sua giustificazione fu che le auto civetta dei carabinieri erano tutte ben conosciute dagli uomini di Cosa nostra e che, dunque, era indispensabile utilizzare un veicolo non riconducibile alle forze dell’ordine. Una prassi ritenuta comune a Palermo.

Articolo redazionale pubblicato sul sito manifestiamo.eu in data 15 maggio 2013

«Provenzano confidente degli investigatori»

Il colonnello dei carabinieri Riccio: potevo catturare il superboss, il Ros mi disse di non intervenire

L’ ufficiale, sospeso dal servizio e sotto processo, ha deposto ieri a Palermo: informai subito i magistrati «Provenzano confidente degli investigatori» Il colonnello dei carabinieri Riccio: potevo catturare il superboss, il Ros mi disse di non intervenire PALERMO – Un colonnello dei carabinieri sospeso dal servizio (e sotto processo a Genova) accusa i colleghi del Ros di avere bloccato nel ‘ 95 la cattura della primula rossa di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano. Parole pesanti che riaprono il capitolo dei sospetti sul corpo speciale dell’ Arma. Michele Riccio, ex investigatore di punta dell’ allora pm milanese Tiziana Parenti, ha deposto ieri in Tribunale, dove è alla sbarra un gruppo di presunti fiancheggiatori del boss corleonese, capo di Cosa Nostra, latitante da 38 anni. L’ ufficiale è apparso pronto a dare battaglia, nonostante le vicissitudini giudiziarie: è accusato di aver usato metodi spregiudicati nella sua attività investigativa, giungendo anche a incastrare gli inquisiti con partite di droga sequestrate ai trafficanti. In aula Riccio ha dichiarato che 6 anni fa nelle campagne di Mezzojuso fu sul punto di arrestare il superlatitante Provenzano grazie alla soffiata di un confidente. Ma al momento decisivo – ha aggiunto – venne stoppato dai vertici del Ros. Poi, nel corridoio del Palazzo, ai giornalisti ha detto che il padrino corleonese è, sì, un boss di gran peso, ma anche un confidente degli apparati investigativi, lasciando intendere che dietro alla cattura di Totò Riina, nel gennaio ‘ 93, ci sia stata la sua mano, come qualcuno ipotizzò in quei giorni. Un’ udienza ad alta tensione, quella di ieri, con grossa affluenza di pubblico, che riporta agli anni ruggenti dei grandi processi di mafia. Il colonnello Riccio ha spiegato di aver ricevuto la soffiata da uno dei suoi confidenti, Luigi Ilardo, un mafioso di mezza tacca capace però di svelare tanti segreti del clan guidato da Provenzano. «Ilardo venne da me il 31 ottobre 1995 per dirmi che quella sera Provenzano avrebbe incontrato alcuni boss in una casa di Mezzojuso – ha detto l’ ufficiale -. La casa si trova proprio di fronte al nascondiglio in cui è stato trovato Benedetto Spera. Comunicai la notizia ai vertici del Ros, precisando che avrei potuto ottenere i mezzi per far scattare l’ operazione. Loro risposero che i mezzi non c’ erano, ma mi assicurarono che li avrebbero avuti in breve tempo e mi raccomandarono di limitarmi a fare appostamenti e a registrare ogni movimento, senza intervenire». Riccio, con l’ aiuto di alcuni colleghi di Caltanissetta, ubbidì e si mise a controllare le auto di passaggio e a segnarne i numeri di targa. «Ma dal Ros – ha aggiunto – non arrivò mai l’ ordine di fare irruzione nel casolare». La stessa sera, Riccio incontrò Ilardo, che gli confermò la presenza di Provenzano al summit. «Di tutto ciò – ha concluso – informai la Procura di Palermo, nella persona del dottor Pignatone». Ilardo, ha ricordato ancora Riccio, venne ucciso qualche mese più tardi a Catania, dopo aver iniziato a collaborare con la Procura di Caltanissetta, dietro sua insistenza. Ma fece in tempo a fare rivelazioni sconvolgenti sugli omicidi di Pio La Torre, di Piersanti Mattarella, Giuseppe Insalaco, sul fallito attentato all’ Addaura contro Falcone. «Tutte vicende – ha concluso Riccio – che con la mafia c’ entravano poco»

Enzo Mignosi per il Corriere della Sera del 7 aprile 2001

Una talpa istituzionale salvò Binnu Provenzano

Una talpa ha tradito i carabinieri del Ros. Bernardo Provenzano conosceva le loro mosse, scoprì presto che il boss di Caltanissetta Luigi Ilardo, con cui intratteneva una corrispondenza, era un confidente. E quando nel maggio del ’96 gli svelarono che il capitano Ultimo era vicinissimo alla sua cattura, ordinò l’assassinio di quel mafioso che faceva il doppio gioco. L’ultimo retroscena sull’imprendibile primula rossa di Cosa nostra lo svelano alcune intercettazioni che i pubblici ministeri Nino Di Matteo e Giuseppe Fici hanno depositato, come nuove prove, nel processo “Grande oriente”, in corso a Palermo contro il clan bagherese di Provenzano. Una cimice piazzata dal Ros all’interno della Fiat Croma di Carmelo Barbieri, il “postino” nisseno del super latitante, condannato pochi giorni fa dal tribunale di Gela a 24 anni di carcere, ha dischiuso un mondo che sembrava impenetrabile. E dai dialoghi è spuntato pure il soprannome di Bernardo Provenzano, il “ragioniere”. Il 4 aprile del ’97, quando ancora l’indagine era in corso – il blitz scattò infatti un anno dopo – Francesco Lombardo, nipote di Piddu Madonia (il vice di Provenzano) si rivolgeva così all’amico Carmelo Barbieri: «Ieri sera mi sono visto con Lucio~e mi ha detto: l’hai saputa l’ultima di Gino? (Luigi Ilardo, ndr) No, non ho~dice a quanto pare era un confidente». L’interlocutore risponde sorpreso: «Chi Gino?». Incalza Lombardo: «Era direttamente in contatto con uno dello Sco». La notizia stava cominciando a circolare nella cosca di Provenzano, anche se le informazioni erano frammentarie. I due fanno infatti riferimento al Servizio centrale operativo della polizia e non al Ros. Ma sanno che il contatto di Ilardo era a Roma. Insiste Lombardo: «A quanto pare dice che è stato lui a fare arrestare Aiello~ è stato lui a fare arrestare Mimì~Se non lo ammazzavano questo consumava a me, a te e a tutta la nostra settima generazione e agli amici magari. Ci consumava a tutti questo~e ancora non sappiamo quello che c’è~sono rimasto come un coglione~cioè mi è crollato il mondo addosso». Barbieri vuole saperne di più. Il giorno dopo, coglie l’occasione di dare un passaggio a Giuseppe Alaimo, cugino di Piddu Madonia, ben più informato. «Vero è?», chiede. Risponde Alaimo: «Minchia~vero è~porco~quello come un pazzo fa la dentro~lui c’è l’ha detto a noi altri». Barbieri insiste: «Piddu ve lo ha detto?» Risposta: «Si, si.. come un pazzo faceva~dicono che c’è qualche verbale~come un pazzo faceva~lo capisci che mio cugino è pigliato di~che minchia si tratta di una cosa di niente? Porco~bastardo lui~lo doveva ammazzare cento anni prima. Dio~.». Le curiosità degli investigatori sono le stesse di Barbieri. E lui, infatti, insiste ancora: «Allora te lo hanno detto che l’hanno ammazzato loro?» La risposta del cugino di Piddu Madonia è la conferma: «E chi minchia è stato!» Ma tutto ciò non basta a scoprire come Provenzano abbia fatto a sapere del doppio gioco di Ilardo. Ancora una volta è Barbieri, con le sue domande, ad offrire qualche ipotesi. Il primo luglio del ’97 conversa in auto con Giuseppe Lombardo. Si chiedono da quando sia iniziata la collaborazione del capomafia con il Ros: «Mi pare strano dal ’94 – accenna Barbieri – perché altrimenti il ragioniere non glielo faceva prendere? Una volta che c’è andato~» All’indomani del blitz “Grande Oriente”, nel novembre del ’98, il colonnello Michele Riccio lo aveva già detto in un’intervista a “Repubblica”: «Una talpa ha salvato Provenzano». La conferma gli era arrivata proprio da queste intercettazioni. «Lo stesso Ilardo me lo confidò», aggiungeva l’ufficiale: «Mi aveva sempre parlato di talpe ad alto livello». Una settimana prima di essere ucciso, Ilardo si era incontrato nella caserma del Ros di Roma con i procuratori di Palermo e Caltanissetta, Caselli e Tenebra. «Un incontro propedeutico alla collaborazione», ha spiegato Riccio. Ma il 10 maggio del ’96, arrivarono prima i killer.

Salvo Palazzolo per La Repubblica del 18 giugno 2000

Il processo nascosto

«Tutte le anomalie di cui sono stato testimone mi hanno fatto capire che Provenzano non volevano catturarlo perché aveva un compito ben preciso».  A parlare è un ufficiale dei Carabinieri in pensione, il colonnello Michele Riccio. Il particolare è stato rivelato ieri nel corso di un processo che dal luglio scorso si svolge a Palermo: un processo importante di cui poco o nulla è stato finora detto. Un «processo nascosto». Proviamo a capire perché.
Sul banco degli imputati siedono due pezzi da novanta delle forze dell’ordine: il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. Il primo, ex-capo del Ros dei carabinieri e del Sisde, oggi dirige l’ufficio sicurezza del comune di Roma. Il secondo, anche lui del Ros, è un ufficiale di grande esperienza, molto noto negli ambienti dell’Arma. La procura di Palermo li accusa di un reato infamante: favoreggiamento dell’ex primula rossa di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Secondo la Procura, Mori e Obinu avrebbero omesso di catturarlo benché fossero stati informati dal colonnello Riccio della sua presenza a un summit che si tenne il 31 ottobre del 1995 in località Mezzojuso, trenta chilometri a sud di Palermo.
La notizia era stata data al colonnello Riccio – che è il principale testimone dell’accusa – da Luigi Ilardo, un uomo d’onore della famiglia nissena dei Madonia che all’inizio del 1994 aveva deciso di collaborare con la giustizia ed era diventato un infiltrato «sotto copertura». Agiva, cioè, per conto dello Stato. Il colonnello aveva subito riferito l’informazione a Mori il quale – è questa una delle più gravi accuse specifiche contro l’ex capo del Ros – «non mi permise di usare un segnalatore da mettere addosso a Ilardo in modo tale da scoprire dove si teneva il summit e arrestare Provenzano».
Questi i fatti di cui si discute nel «processo nascosto». Fatti gravissimi che costituiscono un capitolo della storia mai chiarita del cosiddetto «papello», la trattativa tra Stato e Cosa Nostra. È infatti a quella trattativa che Riccio allude quando parla del «compito ben preciso» di Provenzano. Ma i temi più scabrosi sono altri ancora. Ed è là che probabilmente va cercata la causa dell’occultamento mediatico di questo processo: i rapporti tra Cosa Nostra e Marcello Dell’Utri, senatore di Forza Italia, uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consiglio.
Ilardo ne parlò poco dopo l’avvio della sua collaborazione – cominciata nel gennaio del 1994 sotto il nome di copertura “Oriente” – ma, sostiene Riccio, questa categoria di confidenze fu subito messa da parte. Accantonata. E fu Mario Mori, all’epoca colonnello, a chiederlo. Di certo, il 10 maggio del 1996, alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione, Luigi Ilardo fu assassinato. Un colpo micidiale per la lotta contro Cosa Nostra. L’infiltrato aveva già dato ampia prova di essere affidabile. I suoi racconti avevano tra l’altro permesso la decapitazione dei vertici mafiosi delle province di Catania, Caltanissetta e Agrigento. Inoltre aveva fotografato in diretta l’organigramma di Cosa nostra dopo l’arresto di Riina, permettendo l’individuazione dei favoreggiatori della latitanza di Provenzano. Aveva persino iniziato a scambiare con lui alcune lettere, i famosi pizzini. È stato infatti Ilardo il primo a parlare dell’efficiente mezzo di comunicazione del padrino.Per il colonnello Riccio la morte del “suo” infiltrato fu la conferma definitiva che Cosa Nostra aveva la possibilità di conoscere le mosse degli investigatori. Doveva esserci stata una fuga di notizie dall’interno. Solo una decina di persone sapevano di Ilardo. Queste considerazioni si sommarono al disappunto per il mancato arresto di Provenzano. Riccio decise di informare la magistratura.
Scrisse un rapporto che venne inviato alle procure di Palermo, Catania, Caltanissetta e Messina. Le indagini non furono sviluppate. Non accadde nulla. Anzi qualcosa di importante successe. Ma allo stesso colonnello Riccio.
Il 7 giugno 1997 fu arrestato assieme ai suoi più stretti collaboratori per una brutta storia di droga. La procura di Genova lo accusò di aver gestito illegalmente alcune infiltrazioni nei cartelli del narcotraffico. Una strana storia: per alcune di quelle operazioni Riccio era stato insignito della medaglia al valore della DEA americana e aveva ricevuto ben tre encomi.
Tornato in libertà, Riccio riprese, ancora con maggior convinzione e rabbia di prima, a segnalare le confidenze ricevute da Ilardo. Nel 1998 i giudici di Firenze lo sentirono a proposito delle stragi del ’93 e della trattativa intercorsa nel 1992 tra Vito Ciancimino e Mario Mori. Poco dopo, la Procura di Catania mise nero su bianco i suoi dubbi sul generale Mori e sull’operato dei Ros. Quindi Riccio fu chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri. In quell’occasione, per la prima volta parlò in pubblico di tentativi volti a tenere fuori i politici dalle inchieste: «L’avvocato Taormina mi chiese di affermare che Ilardo non aveva mai fatto il nome di Dell’Utri come persona vicina alla mafia». Respinse l’invito ma, sostiene, ricevette altre pesanti pressioni.
Il 31 ottobre del 2001 ripetè i suoi racconti alla procura di Palermo. Il generale Mori reagì con una denuncia per calunnia. I giudici, però, credettero alla versione del colonnello e il 14 aprile ottennero il rinvio a giudizio per Mori e Obinu. Siamo a oggi. Al processo nascosto.

Nicola Biondo per L’Unità, 10 gennaio 2009

La mancata cattura di Provenzano

C’è un momento esatto in cui la trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra si palesa in tutta la sua squallida concretezza. Una data: 31 ottobre 1995. Un luogo: Mezzojuso, provincia di Palermo, un piccolo comune di 4mila anime. In mezzo alle campagne intorno al paese c’è un casolare. Sembra disabitato. Ma di tanto in tanto qualcuno bussa alla porta e una mano furtiva raccoglie qualcosa. Quella mano è di Bernardo Provenzano, il nuovo “capo dei capi”, il latitante più ricercato d’Italia. E i carabinieri del Ros sanno che si trova lì. Ma come sono arrivati così vicini al boss?

Per capire bene questa storia bisogna fare qualche passo indietro. Nel settembre del 1993 il tenente colonnello Michele Riccio si imbatte per la prima volta in un mafioso. Il suo nome è Luigi Ilardo. Riccio comanda la direzione investigativa antimafia di Genova. L’ufficiale ha un curriculum di tutto rispetto, avendo combattuto il terrorismo al fianco del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed essendo stato spesso al fianco di Gianni De Gennaro che, assieme a Giovanni Falcone, nel 1984 gestì il pentimento di Tommaso Buscetta.

In quel 1993 il Paese è sotto shock. L’anno prima gli attentati a Falcone e Borsellino. Il 15 gennaio era stato catturato Totò Riina, ma la mafia aveva reagito seminando di bombe l’intera penisola. A maggio il fallito attento a Maurizio Costanzo. Il 29 di quel mese la bomba a Firenze in via dei Georgofili: 5 morti. A luglio gli attentati in simultanea a Milano e Roma, altre 5 vittime. Quella notte, come ha raccontato di recente Carlo Azeglio Ciampi, si respira aria di colpo di Stato. I telefoni di Palazzo Chigi rimangono isolati per alcuni minuti. La prima Repubblica sta collassando su se stessa.Da una parte la fine dei vecchi partiti politici cancellati dall’inchiesta Mani Pulite che scopre un fiume di tangenti. Dall’altra l’attacco frontale di Cosa Nostra allo Stato (“Fare la guerra per fare la pace” disse Totò Riina).

Questo è il contesto storico. Michele Riccio viene a sapere che Luigi Ilardo ha chiesto di incontrarlo nel carcere di Lecce in cui è detenuto. Ma chi è questo Ilardo? 42 anni, è un mafioso di un certo livello legato alla famiglia Madonia di Caltanisetta. Da sette anni fa dentro e fuori dal carcere, dal quale esce spesso grazie ad ad alcuni permessi legati a motivi di salute.

Ilardo vuole sfilarsi da Cosa Nostra. E’ stanco, non condivide la strategia stragista portata avanti dai Corleonesi di Riina. Una visione, quella di Ilardo, condivisa da tanti altri mafiosi che si stanno pentendo in massa. Ilardo inoltre ha tanto da raccontare. Ha potuto constatare in prima persona quanto è stretto il legame fra la Cupola e parte delle istituzioni. Riccio lo incontra e lo mette alla prova per capire se è un doppiogiochista. Quando capisce che di Ilardo si può fidare, lo fa trasferire nel carcere di La Spezia. E nel gennaio 1994 Ilardo, ufficialmente per motivi di salute, viene scarcerato. Torna a Catania, dove il clan Madonia gli fa sapere che lo stanno aspettando, che c’è del lavoro da fare. Quello che la Cupola ignora è che Ilardo ora è un confidente dei Carabinieri. D’ora in avanti farà davvero il doppiogioco, ma con Cosa Nostra.

Ilardo tesse una fittissima trama di un gioco estremamente pericoloso. Se dovesse essere scoperto verrebbe ucciso all’istante. Ha due figli, una compagna e un altro figlio in arrivo. Ma l’infiltrato regge benissimo la pressione. La Cupola non sospetta niente e Ilardo continua a fare la parte del mafioso, ma intanto passa informazioni fondamentali al colonnello Riccio. Grazie alle sue soffiate gli arresti che decimano i clan non si contano. Ma il suo obiettivo è un altro: Bernardo Provenzano. Il boss si fida di Ilardo. “Binnu” ha cambiato strategia. Basta bombe, basta “pubblicità negativa” a Cosa Nostra. Si torna all’antico. SI continuano a fare affari, a taglieggiare il territorio, ma niente più spargimenti di sangue non necessari. E’ la strategia dell’inabbissamento di Cosa Nostra. E la capacità di mediazione che dimostra Ilardo gli piace.

Il confidente non ha mai ucciso nessuno, nè prima nè dopo il suo ruolo di confidente. Dal febbraio 1994 al settembre 1995 diventa uomo di fiducia del boss. Fa da paciere fra i clan, media, controlla che gli affari vadano a buon fine. Intanto però gli arresti procurati da Ilardo stanno bruciando la terra intorno al boss latitante che però non sospetta minimamente di lui. Ad un certo punto la svolta. Provenzano “convoca” Ilardo, il quale a sua volta avvisa Riccio che la trappola può scattare. Basterà seguire discretamente il confidente e lui li porterà direttamente nella tana del lupo.

Riccio va in Sicilia, ma l’operazione non è coordinata da lui. A capo di tutto c’è il colonnello Mario Mori del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale). Mori è il protagonista dei primi contatti con Vito Ciancimino nel 1992, il deus ex machina della prima parte della trattativa. Il colonnello è lo stesso che di lì a poco sarebbe finito sotto processo per la mancata perquisizione del covo di Riina del gennaio 1993 (finirà assolto per insufficienza di prove. La sentenza parlerà di mancanto coordinamento fra Carabinieri e Procura, Nda).

Il 31 ottobre Ilardo incontra Provenzano nel casolare di Mezzojuso. L’incontro dura diverse ore, poi il confidente viene congedato. Non accade niente, neanche nei giorni successivi. Non scatta alcun blitz. Mori prima dell’incontro era stato chiaro. Voleva semplicemente che Ilardo raccogliesse “informazioni” da riferire a Riccio e si facesse fissare un secondo incontro con il boss, cosa del resto tutt’altro che facile. Neanche Provenzano fosse uno che si può incontrare una volta a settimana. Riccio aveva chiesto a Mori di far dotare Ilardo di un segnalatore da inserire nella cintura. Richiesta negata dal Ros.

Terminato l’incontro Ilardo fa “rapporto” a Riccio. Descrive tutto minuziosamente. Comprese alcune targhe d’auto con le quali erano arrivati dal bivio di Mezzojuso (luogo dell’incontro con i luogotenenti di Provenzano, Nda) fino al casolare. Spiega come arrivare al covo. Passa qualche giorno e Mori sostiene che il Ros non riesce a trovare quel casolare. Allora una notte Riccio va a prendere Ilardo con la macchina e insieme ripercorrono la strada che il confidente ha fatto per arrivare in prossimità del casolare. Sarebbe tutto molto semplice per il Ros. Niente da fare però, il blitz non scatta. Il copione della mancata perquisizione del covo di Riina sembra ripetersi.

Cosa accade nei mesi successivi? Ilardo continua a svolgere il difficilissimo compito di confidente. Il doppio gioco regge ancora per mesi, mentre prova a farsi fissare un secondo incontro con Provenzano. Intanto vanno avanti le pratiche per farlo entrare nel programma di protezione, tramite il quale diventerà “ufficialmente” un collaboratore di giustizia. Cambierà nome, cambierà vita. Le carte sono pronte e, naturalmente, la notizia è riservatissima. Ne sono a conoscenza Riccio, il Ros e alcuni magistrati delle procure di Palermo e Caltanisetta. La data fatidica è il 14 maggio 1996. Ma il 10 maggio un commando mafioso lo uccide mentre sta rientrando nella sua casa di Catania.

E Provenzano? Continuerà a frequentare quel casolare a Mezzojuso ancora per diverso tempo prima della sua cattura, avvenuta nell’aprile 2006 con undici anni di ritardo.

Le domande sono un’infinità: Perchè il blitz non è scattato? Perchè Mori non ha voluto dotare di segnalatore Ilardo? Com’è possibile che il Ros non riuscisse a trovare un casolare in mezzo al niente vicino al piccolo paese di Mezzojuso? Perchè, una volta individuato il casolare, non si è proceduto ad una sorveglianza 24 ore su 24? Ancora mancanza di “comunicazione” come per il covo di Riina? Chi ha informato Cosa Nostra del pentimento di Ilardo? Perchè Provenzano, una volta fatto assassinare Ilardo perchè venuto a conoscenza del suo ruolo di confidente dei Carabinieri, ha continuato a frequentare il casolare? Aveva forse avuto garanzie? E da chi?

Per questa incredbile storia Mario Mori, oggi generale, è attualmente sotto processo a Palermo per favoreggiamento alla mafia. Uno dei procedimenti più importanti nella storia di questo Paese. Uno dei processi meno seguiti dall’informazione italiana.

Claudio Forleo per Nuova Società, 07 Giugno 2010